quando-una-missione-fallisce:-tutti-gli-errori-della-francia-nel-sahel

Quando una missione fallisce: tutti gli errori della Francia nel Sahel

Parigi nel 2013 ha avviato una delle più delicate operazioni militari degli ultimi anni. Inviando importanti contingenti nel nord del Mali, Paese sconvolto dall’avanzata dei gruppi jihadisti, l’obiettivo dell’Eliseo era quello di sgominare i gruppi islamisti in grado di imporre la propria legge nel cuore del Sahara. La prima operazione è stata chiamata Serval, poi nel 2014 si è passati alla missione Barkhane. Una missione oramai prossima alla chiusura. Non senza strascichi sia a Bamako che a Parigi.

Il Mali è ancora oggi preda dei gruppi jihadisti e la situazione della sicurezza è nettamente peggiorata. La Francia ha quindi fallito il suo intento, dopo aver inviato circa cinquemila uomini e aver lasciato sul campo 59 caduti. A pesare sul fallimento di Parigi sono stati errori tattici, strategici e politici. Una recente inchiesta di Mediapart ha svelato come la Francia non è riuscita a tutelare nemmeno gli alleati nella regione, finendo sotto accusa per comportamenti “neo coloniali”. E così, nonostante l’avanzata jihadista, i cittadini del Mali e del vicino Burkina Faso hanno iniziato a chiedere la fine di ogni presenza francese nel Sahel.

Le vicende francesi nella regione potrebbero rappresentare un monito per il futuro: una missione non può svilupparsi solo con dei piani militari. Al contrario, deve avere una chiara visione politica ed essere attenta alle dinamiche del territorio in cui si opera.

L’avvio dell’operazione Serval

Il 2012 è stato un anno cruciale per il Mali. A marzo un colpo di Stato ha portato alla deposizione del presidente Amadou Toumani Touré, avviando una fase di forte instabilità per il Paese. Nelle regioni settentrionali, a maggioranza tuareg, ha iniziato a prendere sempre più forza il Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad (Mnla).

Si tratta di una formazione indipendentista tuareg che nel giro di poche settimane dalla sua sollevazione ha proclamato, approfittando dell’instabilità delle istituzioni centrali, l’indipendenza delle province a maggioranza tuareg. A trarre giovamento da questa situazione sono stati i gruppi islamisti presenti nelle aree settentrionali del Mali. Nel giro di poche settimane, sigle jihadiste quali Aqim (Al Qaeda nel Magreb Islamico) e Ansar Dine hanno preso il controllo di città quali Gao e Timbuctu.

Considerando che la nascita dello Stato Islamico tra Siria e Iraq si è avuta nel 2014, quanto accaduto in territorio maliano ha rappresentato di fatto il primo caso di un controllo diretto di una regione da parte dei gruppi islamisti. Sul finire del 2012, i miliziani hanno minacciato la stessa capitale Bamako avanzando verso sud. Da qui la richiesta di intervento del governo maliano alla Francia, proclamata durante un discorso alla nazione dal nuovo presidente Dioncounda Traoré.

Parigi così, nel gennaio del 2013, ha deciso l’inizio di una missione volta ad aiutare il Mali a riprendere il territorio. Con l’intento, più generale, di bloccare l’emersione del fenomeno jihadista nel Sahel e nell’Africa occidentale.

La difficoltà di arginare i gruppi jihadisti

L’operazione Serval è durata poco più di un anno. Il suo obiettivo minimo lo ha raggiunto in poche settimane: i francesi sono arrivati in Mali a metà gennaio 2013, un mese dopo le città di Goa e Timbuctu sono risultate nuovamente nelle mani del governo centrale. Bamako ha ripreso il controllo dei propri territori, così come previsto dai piani militari redatti da Parigi. L’esercito francese è intervenuto dall’alto con dei raid specifici contro le basi jihadiste, ma anche via terra. In questa fase dell’operazione, sono morti almeno 7 soldati transalpini.

La sconfitta militare dei gruppi islamisti, non ha però corrisposto con il loro definitivo indietreggiamento. Al contrario, paradossalmente per la Francia i problemi sono iniziati subito dopo la riconquista delle città finite in mano jihadista. Il controllo del territorio è risultato molto difficile, le azioni dell’esercito di Parigi non hanno condotto all’eradicazione dei gruppi più pericolosi e anzi hanno aumentato sentimenti di ostilità verso i soldati.

Al tempo stesso, non si è mai pervenuta a una vera intesa tra l’Lmna e il governo maliano nonostante gli stessi tuareg nel 2013 hanno deciso di collaborare con la Francia. L’operazione Serval ha cambiato nome nel 2014 e si è trasformata in Barkhane. L’Eliseo non ha però assistito a un vero capovolgimento della situazione. Il presidente Emmanuel Macron, in carica dal 2017 (quando già le operazioni nel Mali erano iniziate), ha annunciato nei mesi scorsi la fine anche di Barkhane. Il tutto però proprio mentre le sigle legate al terrorismo islamico sono molto più forti non solo nel Mali, ma anche in Burkina Faso e nel Niger. A distanza di dieci anni dall’operazione Serval, l’islamismo nel Sahel è ancora più forte.

Le accuse contro Parigi

Con i soldati francesi oramai prossimi a lasciare definitivamente il Mali, sulla stampa transalpina si stanno avanzando diverse analisi sulle recenti missioni africane. In un reportage di Mediapart, è stato pubblicato un passaggio di un libro che il giornalista Rémi Carayol ha dedicato alle operazioni francesi. “Serval prima, Barkhane poi – si legge nella prefazione – hanno permesso in un primo tempo di respingere i jihadisti e di limitarne l’espansione. Ma questa presenza militare ha anche rappresentato un freno alla ricerca di soluzioni alternative, in grado di riportare la pace“.

Secondo Carayol quindi è mancata ogni prospettiva successiva alle operazioni militari. L’unica opzione messa in campo da Parigi, ha riguardato l’appoggio a leader locali spesso autori, come sottolineato dal giornalista, di “scelte discutibili”. Non solo, ma i comandi militari francesi avrebbero anche disatteso le istanze degli stessi alleati. Come nel caso dei tuareg. L’Lmna, alleato dell’Eliseo dopo l’avanzata islamista nel nord del Mali, ha collaborato con i soldati transalpini. Successivamente però alcuni gruppi si sono sentiti traditi. C’è un episodio, raccontato a Carayol da un cittadino tuareg, emblematico in tal senso. Nel 2017, in particolare, un comando islamista ha assaltato un campo della divisione anti terrorismo dell’Lmna. Sono morti trenta militanti tuareg, il capo della divisione ha chiesto l’aiuto francese: “L’aiuto è arrivato – si legge nella testimonianza raccolta dal giornalista – ma cinque giorni dopo”.

E ci sarebbero altri episodi in cui Parigi ha lasciato indietro gli alleati nella lotta contro i jihadisti. Come nel caso degli informatori civili, adesso in preda a minacce terroristiche e a possibili esecuzioni condotte dagli integralisti una volta scoperti.

Il fallimento dell’Eliseo

La strategia messa in atto dalla Francia ha quindi contribuito a un progressivo distacco tra il proprio contingente e il territorio. Le persone che in teoria dovevano essere protette e aiutate nella lotta al terrorismo, hanno percepito la presenza francese più come un danno che come un’opportunità positiva. “La presenza francese – ha scritto ancora Carayol – è stata progressivamente vissuta come un’ingerenza neo coloniale e ha fatto emergere il paternalismo e la condiscendenza dei dirigenti francesi nei confronti degli africani, alimentando il crescente rifiuto dell’ex potenza coloniale”.

L’eredità di Parigi nel Mali è caratterizzata non solo da gruppi terroristici più forti, ma anche da una popolazione sempre più anti francese. Altri due golpe si sono succeduti nel Paese dal 2020 in poi, in entrambi i casi le giunte militari al potere hanno promesso una minore ingerenza francese nei propri affari. Progressivamente Bamako ha riposizionato la sua politica estera, avvicinandosi a Mosca e chiedendo l’intervento del Cremlino in funzione anti terrorismo. Nel Paese oggi sarebbero presenti, anche se sul punto non sono mai arrivate conferme ufficiali tra le parti, i contractors dell’agenzia russa Wagner.

Sentimenti anti francesi sono molto diffusi anche nel vicino Burkina Faso, dove più del 40% del territorio è ormai in mano jihadista, e nel Niger. Il governo di Ouagadougou ha ufficialmente chiesto all’Eliseo, lo scorso 23 gennaio, di lasciare il Paese. Il portavoce dell’esecutivo burkinabé ha confermato che è stato dato un mese di tempo a Parigi per andare via dal proprio territorio.

L’importanza di un chiaro piano politico

L’esperienza francese dimostra come i piani militari, non supportati da piani di natura politica, rischiano di avere poco valore. Parigi inizialmente è riuscita a respingere i jihadisti, ma la gestione della situazione successiva al conflitto ha contribuito a far avanzare i gruppi islamisti e a far percepire in chiave negativa la propria presenza sul territorio.

Se da un lato è vero che la Francia poco o nulla ha potuto fare a proposito dei due golpe che hanno interessato il Mali nel giro di poco tempo, è altrettanto vero però dall’altro lato che l’Eliseo ha messo gli scarponi sulle dune del Sahara senza avere idee chiare su come gestire politicamente la propria missione.

Nello specifico, Parigi non è riuscita a ricucire gli strappi tra Bamako e i tuareg, venendo quindi meno una soluzione definitiva alla gestione del territorio riconquistato. Non solo, ma si è affidata a leader locali tramite accordi specifici senza curare una linea politica di più ampio respiro. Infine, l’astio dimostrato dalla popolazione nei confronti del proprio contingente ha palesato tutti i limiti derivanti da una poca conoscenza del territorio.

Errori, quelli francesi, che potrebbero essere preziosi per capire meglio la gestione di eventuali future missioni. E capire meglio soprattutto l’importanza di doversi misurare con le realtà e le peculiarità di un territorio per raggiungere un obiettivo. Parigi, come emerso anche nelle inchieste della stampa locale, ha usato un piglio da ex potenza coloniale ad oggi inadeguato ad affrontare le sfide del nuovo secolo.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.

Related Posts

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *