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I leader del Golfo minacciano al Sisi, ma non abbandoneranno l’Egitto – InsideOver

La relazione tra Egitto e gli Stati del Golfo rappresenta un’unione fondata su interessi reciproci piuttosto che un’autentica fratellanza ideologica. Tuttavia, ora che la crisi economica egiziana ha scatenato un malcontento che il Presidente potrebbe faticare ad arginare, si concretizza il rischio che l’assetto istituzionale del Paese venga messo in questione. Per questo, i leader del Golfo hanno sospeso il loro sostegno a Abdel Fattah al-Sisi.

Una relazione sbilanciata

Dalla fine dei loro contrasti negli Anni Sessanta, il matrimonio di convenienza tra gli asset finanziari del Golfo e l’influenza politica e culturale dell’Egitto ha giocato a favore degli interessi strategici di entrambi, ma in maniera sbilanciata. Questo sbilanciamento si è dispiegato in maniera plateale nei dieci anni di presidenza al-Sisi. Fin dai giorni successivi alla Rivoluzione del 30 Giugno, quando il generale è salito al potere in Egitto spodestando un presidente legittimamente eletto, il sostegno dei monarchi ed emiri della Penisola Araba si è manifestato in maniera considerevole. Mentre il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca di Sviluppo Africana stanziavano miliardi in aiuti per favorire la stabilità economica del Paese, ridurne l’inflazione e il debito pubblico, i fondi provenienti dal Golfo arrivavano sotto forma di finanziamenti diretti e senza alcun vincolo. La rovinosa gestione economica di al-Sisi ha rispecchiato quella dei 60 anni di governo militare prima di lui, e dei miliardi che gli sono piovuti nelle mani, poco o nulla è finito nelle tasche degli egiziani in termini di welfare, sicurezza o stabilità finanziaria, creando una situazione precaria ed esplosiva.

Invece di investire quei fondi in progetti in grado di stimolare l’economia interna e il settore privato, la policy economica impostata dal Generale ha dato priorità a faraonici progetti infrastrutturali che hanno arricchito esclusivamente l’esercito egiziano, che opera in tutti i settori dell’economia. Come spiega il professor Robert Springborg, consigliere scientifico presso l’Istituto Affari Internazionali (IAI), i prestiti mal adoperati dall’esecutivo egiziano hanno avuto un effetto deleterio sul bilancio statale, innescando una crisi del debito che ha portato ad un controllo ancora più estensivo dell’esercito sull’economia nazionale. Springborg sottolinea che il risultato di prestiti eccessivi è che ora una porzione significativa della spesa pubblica è impegnata esclusivamente nella restituzione del debito e la vita economica del Paese è strettamente dipendente dalla continuazione dei prestiti. Questo circolo vizioso in cui al-Sisi ha fatto precipitare il Paese è stato definito “cultura della dipendenza” e lega indissolubilmente la capacità del Cairo di far fronte alle sue sfide socio-economiche all’erogazione di fondi provenienti dal Golfo.   

Gli interessi del Golfo

I leader del Consiglio di Cooperazione del Golfo – e in particolare Arabia Saudita ed Emirati, supporter principali di al-Sisi – hanno nutrito a lungo e oculatamente la cultura della dipendenza egiziana tramite finanziamenti e garanzie per i prestiti del Fondo Monetario Internazionale per molteplici motivi. In primis, la repressione applicata da al-Sisi ha concretamente sventato il rischio di una svolta democratica nel più popoloso Paese del mondo arabo. Le Primavere del 2011 sono state percepite come un rischio esistenziale dagli Stati del Golfo, preoccupati dalla repentina crescita di potere dell’Islam politico impersonato dai Fratelli Musulmani. Considerato il peso demografico e culturale dell’Egitto nella regione, l’ipotesi che potesse diventare un modello di statualità islamica alternativa a quella del Golfo rappresentava un rischio troppo grande. Il supporto dato al-Sisi contro il nemico comune, i Fratelli Musulmani, si è concretizzato nel finanziamento del movimento Tamarrod (termine arabo per “ribellione”) che nel giugno 2013, raccogliendo 22 milioni di firme, ha portato alla destituzione del presidente Morsi, stroncando la minaccia del nuovo Islam politico sul nascere.

Un secondo motivo che assegna al Cairo una rilevanza particolare per i leader GCC è che il Canale di Suez e l’oleodotto SUMED (Suez-Mediterranean) costituiscono vie strategiche per il greggio e il gas naturale provenienti dal Golfo e diretti verso Europa e Nord America. Entrambi costituiscono snodi fondamentali per il commercio delle risorse energetiche saudite, emiratine, kuwaitiane e qatariote. Mantenere un rapporto privilegiato con l’esecutivo che controlla quelle vie è quindi una priorità nel panorama geopolitico del Consiglio di Cooperazione del Golfo.

Infine, va considerata anche la competizione regionale che oppone le due sponde del Golfo Persico. La Repubblica islamica dell’Iran rappresenta una sfida per dimensione, popolazione, quantità di risorse e potenza militare, anche se la sua forte identità nazionale sta attraversando un’inedita stagione di rivolgimenti. Per le monarchie della sponda Araba del Golfo, mantenere una presa salda su un Paese influente come l’Egitto assicura loro una lunghezza di vantaggio nei giochi persiani.

La fine dei finanziamenti

La leadership di al-Sisi ha determinato una crisi economica e delle tensioni sociali che rendono l’Egitto un Paese instabile e quindi pericoloso per gli interessi del Golfo. Insoddisfatti dagli scarsi risultati dei loro investimenti egiziani, i leader delle petro-monarchie hanno bloccato le linee di credito al Cairo: un Egitto utile è per loro un Egitto stabile, e al-Sisi ha perso la fiducia dei suoi maggiori azionisti. Finora il Generale aveva svelato lo sbilanciamento di questa relazione ringraziando in maniera quasi reverenziale i “fratelli nel Golfo” in diverse occasioni pubbliche.

Assistendo inerme al prosciugamento degli aiuti degli alleati ad est, recentemente si è lasciato andare a dichiarazioni dai toni disperati, arrivando a dire che l’Egitto “non avrebbe potuto continuare ad esistere” senza il loro aiuto. Il realismo dei leader del Golfo non li ha fatti impietosire, ma i loro interessi nella patria delle piramidi restano cruciali. Per tutelarli, possono fare pressione sull’esercito egiziano per stabilizzare la situazione ed esprimere un’alternativa al Generale. La relazione strutturata in tanti anni era funzionale per le petro-monarchie arabe, ma per rimanere tale c’è bisogno di una figura più affidabile di al-Sisi, che risulta l’unico elemento sacrificabile in questa equazione.

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