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Dalle certezze alle paure. Gli Usa accendono i riflettori su Israele

Secondo le indiscrezioni del New York Times, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu potrebbe essere presto a Washington dal presidente Usa Joe Biden. L’ambasciatore statunitense in Israele, Tom Nides, sentito dalla radio militare dello Stato ebraico, ha confermato che l’invito sarà molto probabilmente per dopo Pasqua. Più cauto invece il Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca che, attraverso un suo portavoce, ha fatto sapere che adesso “non è in programma una visita del primo ministro Netanyahu a Washington”, pur aggiungendo che “molto probabilmente il premier visiterà Washington prima o poi”.



L’amicizia tra Biden e Netanyahu

Tra i due, Biden e Netanyahu, c’è un’antica amicizia che travalica le differenze politiche, spesso causa di grandi divergenze. Si conoscono da decenni e l’attuale presidente Usa, nel 2014, sintetizzò in modo molto chiaro il loro rapporto: “Bibi, non c’è una dannata cosa in cui sono d’accordo con te, ma ti voglio bene”. Ma per il capo della Casa Bianca, l’amico Bibi, nuovamente premier dello Stato ebraico dopo la vittoria del suo Likud, è al momento anche un grande punto interrogativo. Una condizione che riguarda anche Israele, che rischia a sua volta di trasformarsi in un grande punto interrogativo per l’agenda Usa in Medio Oriente.

Sia chiaro, l’asse tra i due Paesi resta solido, specialmente sotto il profilo militare. Ma in questi ultimi anni, il miglior alleato Usa nella regione non ha rappresentato quella garanzia di stabilità su cui si è sempre basata l’agenda americana.

Le continue crisi politiche, il susseguirsi di elezioni a stretto giro di posta con governi caduti in poco tempo, le forti tensioni con i palestinesi e ora le proteste di piazza contro la riforma della giustizia promossa da Netanyahu hanno costretto ad accendere i riflettori sulla tenuta del sistema israeliano. A maggior ragione dopo che lo stesso primo ministro, riferendosi alle manifestazioni e allo stop all’approvazione della riforma, ha pubblicamente ammesso che “non possiamo avere una guerra civile“. Segno che anche dal governo si inizia a temere per la tenuta del sistema.

Le perplessità degli Stati Uniti

La perplessità dell’amministrazione democratica americana – che ricordiamo si basa anche su una netta contrapposizione a quella presidenza Trump che con Netanyahu aveva creato una forte sinergia – si vede anche dal freno sulla possibile visita negli Usa di Bibi. Un mancata presenza, quella del premier israeliano a Washington, che come osservato da Reuters non è affatto secondaria. Da circa 50 anni, spiega l’agenzia di stampa, i primi ministri di Israele hanno quasi sempre visitato gli Stati Uniti nei primi tre mesi di mandato. Solo in due casi non è avvenuto, ma di certo non sono paragonabili a un personaggio politicamente longevo e fondamentale come è stato e continua a essere Netanyahu.

Oltre a questo approccio molto cauto nei confronti del premier israeliano, i media Usa avevano riferito anche di una telefonata tra Netanyahu e Biden che, stando alle fonti di Washington, aveva palesato il personale sollievo per lo stop alla riforma della giustizia. Le fonti della Casa Bianca hanno riferito che Biden aveva parlato di quanto accade in Israele come di uno “stato di ansia interna che non si vedeva da tempo”. Il fatto non è piaciuto alla politica israeliana. Netanyahu, ribadendo l’alleanza “incrollabile” con gli Stati Uniti, ha affermato che “Israele è un Paese indipendente che prende le sue decisioni in base alla volontà dei suoi cittadini e non in base a pressioni esterne, compresi i nostri migliori amici”. Più polemico Itamar Ben-Gvir, esponente di spicco della destra radicale, che ha sottolineato come “Israele è un Paese indipendente e non un’altra stella sulla bandiera degli Stati Uniti”. Dal Likud, invece, arrivano indiscrezioni al veleno, con qualcuno che suggerisce che Netanyahu saprebbe che il prossimo presidente sarà “un repubblicano”.

Lo scontro coinvolge anche l’opposizione. Mentre Yair Lapid ha accusato via social il primo ministro per avere rovinato, con il suo governo, l’alleanza con Washington, Benny Gantz, scrive il Times of Israel, ha definito i commenti di Biden “un urgente campanello d’allarme per il governo israeliano”.

Perché gli Usa non possono abbandonare Israele

La tensione tra i due governi dunque esiste. Ed è una notizia utile a comprendere il peso di queste proteste e della tenuta dell’esecutivo per l’agenda Usa. Come spiegato da Marco Ventura su Il Messaggero, “la preoccupazione di Biden riguarda la tenuta della diplomazia e presenza americana in Medio Oriente” in cui Israele rappresenta “il baluardo incrollabile dello schieramento americano e occidentale”.

Ma questa continua instabilità preoccupa soprattutto alla luce di quanto sta accadendo in questi mesi. La guerra in Siria, il grande nodo del nucleare iraniano, la presenza militare russa, l’avvento della Cina con la nuova via Seta e nuovi equilibri regionali stanno modificando il quadro strategico del Medio Oriente, certificando anche alcuni errori delle varie amministrazione Usa. Come scrivevamo su questa testata, circa una settimana fa il comandante di Centcom ha sottolineato che l’Iran è “esponenzialmente più forte” a livello militare rispetto a soli cinque anni fa, mentre Pechino è ormai il principale partner della maggioranza dei Paesi sotto l’ombrello Usa nell’area mediorientale e dell’Asia centrale. L’alleanza con Israele è un elemento centrale e dato per scontato da tutte le amministrazione statunitensi. Eppure, in questo contesto già così complesso, la crisi di identità del sistema israeliano rischia di essere per Washington un enorme problema strategico.

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