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Arresto imminente per Trump? Dem e Soros pronti a tutto pur di farlo fuori – Federico Punzi

Una notizia bomba è arrivata nel pomeriggio di ieri da oltreoceano: l’ex presidente Usa Donald Trump potrebbe essere incriminato e arrestato martedì prossimo per ordine del procuratore distrettuale di Manhattan. A sganciarla attraverso il suo social è stato lo stesso Trump.

Anche secondo Fox News il suo arresto sarebbe imminente, la prossima settimana: in corso gli ultimi preparativi. Contatti infatti sarebbero intercorsi tra l’ufficio del procuratore distrettuale, l’FBI e il servizio segreto incaricato della sicurezza dell’ex presidente, perché tutto fili liscio.

A Trump verrebbero prese le impronte digitali e sarebbe processato come ogni altro imputato. Ma stando a quanto riportano i media, non opporrebbe resistenza, non verrebbe ammanettato e molto probabilmente uscirebbe su cauzione in attesa del processo. Ma l’ex presidente risiede in Florida e secondo alcuni per l’arresto servirebbe l’autorizzazione, nient’affatto scontata, del governatore Ron DeSantis.

Accusa politica

Una decisione che rischia di precipitare ancor di più gli Stati Uniti nel caos politico e istituzionale e che dimostra ancora una volta la determinazione dei Democratici e dell’impero Soros di impedire con ogni mezzo a Trump di tornare alla Casa Bianca.

L’ex presidente ha già chiamato i suoi supporter alla mobilitazione: “Protestate, riprendetevi la nostra nazione!”

Vedremo se l’accusa sarà in grado di esibire prove convincenti, ma sulla base delle informazioni pubblicamente disponibili ad oggi, il caso non sta in piedi. Nessuno dovrebbe essere accusato sulla base di teoremi non dimostrati, ma se ciò accade al principale leader del partito di opposizione, candidato a sfidare il presidente in carica, suona ancora più inquietante. Sono cose che solitamente accadono nelle dittature.

Netta la reazione dello Speaker Repubblicano alla Camera, Kevin McCarthy:

Ci risiamo: un oltraggioso abuso di potere da parte di un procuratore distrettuale radicale che lascia in libertà criminali violenti mentre cerca vendetta politica contro il presidente Trump. Sto ordinando alle commissioni competenti di indagare immediatamente se i fondi federali vengono utilizzati per sovvertire la nostra democrazia interferendo nelle elezioni con azioni penali politicamente motivate.

Procure in mano a Soros

Non ispira fiducia che a guidare l’inchiesta sia un procuratore di sinistra radicale, Alvin Bragg, sostenuto e finanziato da George Soros. Né che a New York, Bragg possa contare su giudici e giurati più che motivati contro Trump.

È questo uno degli aspetti più inquietanti della vicenda: un governo ombra o parallelo, quello di Soros, che ormai controlla pezzi sempre più ampi del potere giudiziario Usa, al fine di depenalizzare di fatto i reati commessi dai militanti dei gruppi di sinistra radicale, come Antifa e BLM, e perseguitare invece gli avversari politici.

Trump favorito o azzoppato?

Francamente non ci sentiamo di condividere l’idea di molti, tra cui Elon Musk, secondo cui questa ennesima persecuzione giudiziaria avrebbe l’effetto perverso di favorire Trump nella corsa alla Casa Bianca. Può avere un senso nel breve periodo, ma nel medio-lungo termine sarà una spinta per le sorti politiche dei Democratici.

Nell’immediato, l’incriminazione di Trump per un caso ridicolo può valergli un rimbalzo nei sondaggi. Susciterà la rabbia del popolo MAGA e persino la simpatia degli altri repubblicani, che troveranno spregevole questa manovra, aumentando le sue chance di vincere le primarie.

Tuttavia, per quanto ridicola, è probabile che questa incriminazione rappresenti una sorta di passaggio del Rubicone, il via ad altre incriminazioni per vicende più gravi. Il procuratore speciale Jack Smith, per il caso dei documenti di Mar-a-Lago e il 6 gennaio, e il procuratore distrettuale Fani Willis, di Fulton in Georgia, per il caso Stop the Steal, che si ritrovano tra le mani casi molto più solidi, non volendo essere da meno, potrebbero rompere gli indugi e incriminarlo.

Sebbene discutibili e politicamente motivate, le accuse di aver ostacolato il Congresso il 6 gennaio 2021 e di aver ostacolato l’indagine sui documenti classificati custoditi a Mar-a-Lago (nonostante a Biden e alla Clinton per una condotta del tutto simile sia riconosciuta sostanziale impunità) si riferiscono a fatti estremamente seri, ai quali molti elettori repubblicani e indipendenti sono più sensibili rispetto al caso ridicolo portato avanti da Bragg.

Per quanto queste incriminazioni, prese singolarmente, possano apparire forzature politiche, o addirittura abusive, gli elettori “moderati” saranno indotti a razionalizzarle, (1) autoconvincendosi che se tre procuratori prendono la grave decisione di incriminare un ex presidente, qualcosa di fondato deve pur esserci (forse no, ma perché sfidare il potere per un candidato comunque azzoppato?) e (2) illudendosi che una volta sacrificato Trump, il sistema si placherà e tornerà alla normalità.

Un caso puramente politico

Secondo Andrew McCarthy di National Review, certo non un trumpiano, l’incriminazione sarebbe “una vergogna, per una questione di giusto processo e buon governo”.

Ovviamente Trump non ha diritto ad alcuna immunità in quanto ex presidente, ma “nessun ex presidente e candidato importante dovrebbe essere oggetto di un procedimento penale, soprattutto da parte del partito di opposizione, a meno che la questione non sia veramente seria, e a meno che non venga trattata come condotta criminale se fosse commessa da chiunque”.

Il caso montato dal procuratore Bragg invece è puramente politico. I pubblici ministeri federali, ricorda McCarthy, lo lasciarono cadere anni fa, come d’altronde lo stesso Bragg prima che fosse spinto dai Democratici a riesumarlo. E tutti sanno, insiste McCarthy, che Bragg non porterebbe mai un caso come questo contro nessuno che non sia Trump.

Il crimine dilaga a New York, in parte perché la posizione predefinita di Bragg è l’indulgenza anche nei confronti di criminali incalliti. Nel caso di Trump, l’accusa di falsificazione di documenti aziendali è, nella migliore delle ipotesi, un reato minore (misdemeanor) già prescritto, che può essere gonfiato in un crimine (felony) solo sulla base di teorie giuridicamente e di fatto dubbie. Questa, conclude, è una classica azione penale selettiva, lanciata esclusivamente per scopi politici.

Perché legalmente non regge

Sebbene politicamente popolare, il caso è “legalmente patetico”, concorda Jonathan Turley della George Washington University.

La vicenda è quella dei pagamenti all’ex spogliarellista Stormy Daniels. Nell’autunno del 2016, nell’imminenza del voto per le presidenziali, Trump, attraverso il suo legale Michael Cohen, avrebbe comprato il suo silenzio su un rapporto risalente al 2006 pagandole 130 mila dollari. Ora Bragg pretende di incriminarlo per violazione delle leggi elettorali e sta distorcendo le leggi statali per perseguire un reato che sarebbe federale, già lasciato cadere anni fa da una procura federale.

Il problema è che è estremamente difficile, spiega Turley, dimostrare che il pagamento di denaro per coprire una relazione imbarazzante sia stato fatto per scopi elettorali anziché per una serie di altri ovvi motivi, dalla protezione della reputazione di una persona celebre alla conservazione di un matrimonio. Tra l’altro, Trump non ha utilizzato né i fondi né i legali della campagna, ma i suoi personali.

Un caso simile contro l’ex candidato alla presidenza John Edwards è fallito nonostante avesse utilizzato i fondi della campagna elettorale.

L’ufficio del procuratore degli Stati Uniti del distretto meridionale di New York ha aperto su Trump e i suoi associati una miriade di indagini, ma alla fine ha respinto un procedimento giudiziario basato sulla violazione della legge elettorale e anche il presidente della Federal Election Commission (FEC) ha espresso dubbi sulla teoria.

Anche i pubblici ministeri che lavoravano sotto il predecessore di Bragg, Cyrus Vance Jr., hanno escluso la possibilità di utilizzare una legge dello Stato di New York per perseguire un reato federale.

Paradossale che lo stesso Bragg, in precedenza, aveva espresso dubbi sul caso e lo aveva di fatto chiuso subito dopo essere entrato in carica, inducendo alle dimissioni i due procuratori che lo seguivano. Uno dei due, Mark F. Pomerantz, ha persino lanciato una campagna mediatica contro la decisione di Bragg e pubblicato un libro che descriveva nel dettaglio il caso contro Trump – nonostante non fosse stato nemmeno accusato, figuriamoci condannato.

Ma alla fine, a quanto pare, la campagna mediatica ha funzionato e Bragg è tornato sui suoi passi, probabilmente spinto dalla preoccupazione dei Democratici di impedire in ogni modo la rielezione di Trump.

Ma gli ostacoli legali non sono affatto superati. Una delle possibili accuse sarebbe la falsificazione di documenti aziendali, perché Trump avrebbe coperto come spese legali i presunti pagamenti segreti a Stormy Daniels in violazione delle leggi elettorali federali.

Eppure, nessuno ha gridato al reato penale quando Hillary Clinton ha dovuto affrontare un’accusa non dissimile. L’anno scorso, infatti, la Campagna Clinton se l’è cavata con una multa della FEC per aver finanziato il dossier Steele (utilizzato per spingere la bufala della collusione Trump-Russia nel 2016) come spesa legale.

Si tratterebbe in ogni caso di un reato minore (misdemeanor), già prescritto. L’unico modo per convertirlo in un crimine (felony) è dimostrare che “l’intenzione di frodare include l’intenzione di commettere un altro crimine o di aiutare o nascondere la sua commissione”. L’altro crimine sarebbe la violazione delle leggi elettorali, che però sono federali e il Dipartimento di Giustizia aveva precedentemente rifiutato di perseguire.

Per Bragg il collegamento a un reato federale è fondamentale anche per un altro motivo: il termine di prescrizione per il misdemeanor è di due anni. Anche se dimostra che si tratta di felony, la prescrizione di cinque anni potrebbe essere difficile da stabilire.

E gli affari della famiglia Biden?

Tutto questo mentre gli affari della famiglia Biden con i soci cinesi del figlio Hunter non sembrano interessare l’FBI e il Dipartimento di Giustizia. Come ha riportato ieri Fox News, il presidente Biden ha negato che la sua famiglia abbia ricevuto oltre un milione di dollari di pagamenti da conti collegati al socio in affari di Hunter Biden, Rob Walker, e alle loro iniziative imprenditoriali cinesi nel 2017, anche se i registri finanziari indicano il contrario.

I documenti bancari infatti dimostrano che Hunter Biden, il fratello del presidente Jim, e Hallie Biden, la vedova di suo figlio Beau, hanno ricevuto pagamenti da Walker e dalla loro joint venture con la società energetica cinese CEFC. Tuttavia, a prescisa domanda il presidente aveva negato: “That’s not true”.

Soldi dalla Cina

I registri ottenuti dalla Commissione di vigilanza della Camera hanno rivelato che il 1° marzo 2017, meno di due mesi dopo che l’allora vicepresidente Biden aveva lasciato l’incarico, State Energy HK Limited, una società cinese, ha trasferito 3 milioni di dollari alla Robinson Walker, LLC. Il giorno successivo, Robinson Walker, LLC ha trasferito oltre 1 milione allo European Energy and Infrastructure Group ad Abu Dhabi, una società associata a James Gilliar, socio di Hunter Biden.

“Dopo che Robinson Walker, LLC ha ricevuto 3 milioni di dollari da State Energy HK Limited, i membri della famiglia Biden e le loro società hanno iniziato a ricevere pagamenti per un periodo di circa tre mesi“, afferma il promemoria della Commissione. Tra i destinatari, “Hallie Biden, società associate a Hunter Biden e James Biden e un conto bancario sconosciuto identificato come Biden“.

Ora, è strano che né all’FBI né ad un procuratore sia venuta la curiosità di capire se la famiglia Biden abbia sfruttato la precedente posizione di vicepresidente di Joe Biden per concludere affari redditizi con entità straniere – oltretutto cinesi.

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