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“Tutto fa pensare a Israele”. Le ipotesi sul blitz con i droni in Iran

Il cinematografico blitz con droni contro le infrastrutture militari della centralissima Isfahan continuerà a far discutere ancora a lungo, dentro e fuori l’Iran, stuzzicando dubbi e fantasie di osservatori e analisti.

L’attacco non è stato rivendicato, ma detti e non detti suggeriscono che la firma sia del Mossad, servizio segreto che in Iran è di casa da anni, come ricordano la campagna di sabotaggi del 2020-21 e il lungo elenco di vittime eccellenti mietute per le strade di Teheran, e i cui agenti mai hanno nascosto di avere un’inclinazione per la spettacolarità.

Quanto accaduto a Isfahan continuerà a far discutere ancora a lungo, anche tra Occidente e Russia, perché degli elementi sembrano indicare che, rispetto al passato, possa aver avuto luogo un intricato blitz con più destinatari. Un blitz che potrebbe essere stato pianificato da un astuto mandante, Washington, che ha approfittato della guerra coperta in essere tra esecutore, Tel Aviv, e obiettivo, Teheran, per inviare un avvertimento a Mosca e ai suoi partner e, forse, per aggravare la rottura russo-israeliana.



Tutte le strade portano al Mossad

Tutte le strade portano al Mossad; questo si potrebbe concludere, per quanto concerne il caso Isfahan, da uno sguardo approfondito alle teorie più diffuse e rilanciate da analisti indipendenti, gole profonde e stampa specializzata.

Sarebbe stato il Mossad, sicuramente o probabilmente con il supporto esterno di una o più controparti straniere – Cia e/o Gid? –, e sicuramente o probabilmente con l’appoggio interno, cioè a Isfahan, di quinte colonne. Non lo confermano né lo smentiscono Wall Street Journal e Jerusalem Post, storicamente in contatto coi loro rispettivi 007, ma è intuibile e plausibile.

Potrebbe essere stato il Mossad, i cui moventi si proverà a chiarire più avanti con l’aiuto di due esperti, perché il blitz è avvenuto nel rispetto del modus operandi di Tel Aviv. E perché la realtà di Ishafan è una zona grigia al centro di giochi di spie e cospirazioni, pullulante di agenti israeliani e costellata di nascondigli, come monti e baraccopoli, nei quali occultare armi introdotte clandestinamente dall’estero.

Certo è che il raid non è da catalogarsi come un nuovo e mero atto delle longeve guerre irano-israeliane, ma come la conferma del loro ingresso definitivo nel più ampio contesto dello scontro Russia-Stati Uniti. Ingresso che imporrà ai belligeranti delle scelte e sarà il banco di prova tanto del Secolo israeliano, al bivio tra autocentricità e netto allineamento, quanto delle profezie brzezinskiane e huntingtoniane sulla nascita della temuta coalizione antiegemonica sino-russo-iraniana.

Ombre azere su Isfahan?

Secondo Cesare Figari Barberis, esperto di spazio postsovietico del Geneva Graduate Institute, “il fatto che siano state colpite raffinerie e fabbriche per la produzione di armi fa pensare ad una rappresaglia per la partecipazione dell’Iran alla guerra in Ucraina”. Partecipazione che ha assunto la forma della vendita “di droni Shahed alla Russia, che stanno facendo il loro lavoro nel conflitto” e che potrebbe aver scatenato “una ritorsione”.

Si è trattato “di attacchi molto precisi” ha proseguito l’esperto. Troppo precisi. Attacchi “che non tutti sono in grado di condurre”, come dimostrato dal fatto che, nel blitz di Isfahan, i droni avrebbero “colpito e ucciso un singolo individuo”. Estrema precisione.

“Tutto”, insomma, “fa pensare ad Israele“. La domanda, a questo punto, è: “da dove è partito il raid?”. Per Figari Barberis “può essere” che i droni siano decollati anche dalle terre israeliane, oppure che siano stati “gli americani dall’Iraq“.

Una pista alternativa vedrebbe e vorrebbe un coinvolgimento di Baku nel ruolo di fornitore di supporto logistico all’operazione. Perché l’Azerbaigian è uno storico alleato di Israele, che nella terra del fuoco avrebbe una base segreta dai primi anni Dieci. E perché, come ricorda Figari Barberis, “le relazioni con l’Iran sono tese, come ricorda l’attacco all’ambasciata azera a Teheran, nel quale è morta una persona e due sono state ferite e per il quale il presidente Ilham Aliyev ritiene l’Iran responsabile, [poiché] si vocifera che dietro ci siano stati i servizi segreti iraniani”. Quindi, secondo la pista azera, la partecipazione di Baku all’operazione “si collocherebbe nel contesto delle ultime, ma non nuove, tensioni tra Iran e Azerbaigian”.

La pista azera, secondo Figari Barberis, è poco plausibile e “tende a scartarla”. Anche perché “per realizzare degli attacchi di questo genere servono delle basi vere e proprie, mezzi e uomini sul territorio, che al momento non sembra ci siano”. E, poi, “se delle basi [israeliane] sul territorio azero esistessero in segreto, l’Iran non si accorgerebbe della loro esistenza? Difficile da credere”.

In definitiva “vista la precisione degli attacchi e dati gli obiettivi colpiti, dalle fabbriche di armi ai singoli individui, tutto fa pensare ad Israele”. “Ma la vera domanda”, si chiede l’analista, “è questa: il raid è avvenuto su pressione degli Stati Uniti? Chissà”.

Schiaffo a Teheran, lividi a Mosca

Abbiamo raggiunto Brahim Ramli, analista strategico presso il Parlamento Europeo che in precedenza ha servito nella divisione Medio Oriente della NATO, col quale si è discusso del blitz sulla città iraniana e delle sue possibili conseguenze.

Ramli, similmente a Figari Barberis, spiega che dietro il blitz “è molto probabile che ci sia stato Israele, con un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti oppure con un loro semaforo verde”. Escluso a priori, sostiene l’analista, lo scenario di un’azione “compiuta unilateralmente”.

Secondo l’analista, l’attacco “non è partito né dall’Azerbaigian né dall’Iraq” ed è da interpretare come “una ritorsione israeliana per l’invio di armi iraniane ai russi”. Un gesto, va avanti Ramli, “che serve gli interessi degli Stati Uniti” nella misura in cui punisce Teheran, potrebbe dissuadere potenziali sponsor del Cremlino ed è suscettibile di peggiorare le già tese relazioni tra Mosca e Tel Aviv. Calcolo intelligente di un abile mandante che ha delegato il lavoro sporco ad un esecutore astuto ma, causa la proxy war in corso con l’Iran, con la vista offuscata dalla nebbia? Forse.

Ramli non ha dubbi sul modo in cui è stato possibile il raid: “è partito dall’interno“. Perché, rammenta l’analista, “gli israeliani hanno tante spie, tanti agenti in Iran, e, perciò, potremmo aver assistito a qualcosa di simile rispetto a quanto già visto in passato, dai sabotaggi agli omicidi contro elementi dei Pasdaran e scienziati”.

Per quanto riguarda le conseguenze del blitz per la tenuta dell’asse russo-israeliano, Ramli è dell’idea che “l’impatto sarà misto“. Perché “se è vero che sul fronte ucraino i due paesi hanno una relazione piuttosto tesa, non va dimenticato che dai loro sentimenti dipende la stabilità di un altro fronte, caro ad entrambi, che è la Siria“. In quest’ultima, e in esteso in Medio Oriente, “russi e israeliani hanno degli interessi comuni e sono legati da un accordo di massima”.

Il raid su Esfahan è uno schiaffo che, dato a Teheran, ha lasciato lividi sul volto di Mosca, che ha ragione di ritenersi parte lesa e destinataria del gesto, ma la vera domanda da porsi, secondo Ramli, è la seguente: “Russi e israeliani vorranno realmente cedere alla tentazione di un’escalation data l’importanza di preservare l’equilibrio in Siria?”.

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