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Prende forma l'ombra di una “Crimea asiatica”: cosa succede intorno a Taiwan

La notte del 25 ottobre del 1949, un’armata dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese, composta da centinaia di imbarcazioni da pesca in legno, salpò verso l’arcipelago delle Isole Kinmen (o Quemoy, come sono conosciute in Occidente), controllate da Taiwan.

L’obiettivo della Cina, allora guidata da Mao Zedong, era duplice: sconfiggere definitivamente i nazionalisti del Kuomintang, che si erano rifugiati a Taipei dopo la sconfitta nella guerra civile contro i comunisti, e conquistare i territori da loro controllati.

I comandanti cinesi pensavano tuttavia che, per riuscire nella missione, fosse necessario prima prendere il controllo delle piccole isolette taiwanesi situate a pochi chilometri dalla costa cinese, come le Isole Matsu, le Wuqiu e le Kinmen, e poi sferrare l’assalto finale sulla roccaforte più grande, Taiwan appunto. Il Dragone cercò quindi di inghiottire l’arcipelago delle Kinmen, ma il piano di Mao, a causa di vari errori militari e operativi, fallì miseramente.

Nel 2014, e cioè 65 anni dopo questo episodio, dall’altra parte del mondo sarebbe andato in scena un blitz simile, con analoghi obiettivi di annessione territoriale, ma con un esito differente. Tra il 20 e il 27 febbraio del 2014 la Russia inviò in Crimea, senza dichiararlo pubblicamente, alcune sue truppe prive di insegne, che presero il controllo del governo locale.

In seguito, un nuovo governo di Crimea, filorusso, organizzò un referendum popolare; in caso di vittoria, le autorità avrebbero dichiarato l’indipendenza dall’Ucraina e chiesto l’annessione alla Russia. Il risultato della tornata elettorale, non riconosciuta da gran parte della comunità internazionale, vide la vittoria, con il 95,32% dei voti, di chi proponeva l’annessione alla Federazione Russa. La Cina potrebbe fare qualcosa di simile, seppure attraverso modalità molto più soft, a Taiwan?



Tra due fuochi

Il parallelo non dovrebbe essere ignorato. Se non altro perché, almeno in teoria, la Cina potrebbe fare qualcosa di simile con Taiwan. Ma non tanto con l’isola principale, e cioè quella che siamo abituati a riconoscere sulle cartine, bensì con gli arcipelaghi – controllati da Taipei – dislocati a pochi chilometri dalle coste cinesi meridionali. I riflettori sono quindi puntati sulle Isole Kinmen, a due chilometri da Xiamen, città della provincia cinese del Fujian.

L’isola più grande, Kinmen, ai tempi della Guerra Fredda era la sede di importanti riviste statunitensi come Life e ospitava i corrispondenti del New York Times. Come ha sottolineato il magazine taiwanese CommonWealth Magazine, era inoltre conosciuta per essere la “Berlino Ovest dell’Asia Orientale“, dislocata com’era a metà strada tra la Cina comunista e la Taiwan sostenuta dagli Stati Uniti.

In quattro decenni di intensa militarizzazione, e quindi dal 1949 alla fine degli anni ’80, gli abitanti di Kinmen hanno ricevuto un addestramento anticomunista e di controspionaggio per prevenire ogni possibile infiltrazione del Partito Comunista Cinese. I segni del passato sono visibili e tangibili ancora oggi sui muri di alcuni edifici. “L’anticomunismo avrà successo”, si legge sulla facciata di una struttura diroccata. In quelle stanze una volta sorgeva The Western Company, un’impresa privata utilizzata come base segreta dalla Central Intelligence Agency (CIA) e dal governo del Kuomintang durante la Guerra di Corea (1951-1953). Serviva come stazione per raccogliere informazioni sull’esercito cinese e per pianificare una possibile guerriglia lungo la costa sud-orientale della Cina.

Cicatrici del passato, visto che adesso a Kinmen si respira un’altra aria. Nel 2001, l’isola è diventata una città pilota per i cosiddetti “Tre Collegamenti” (trasporto diretto, posta e comunicazioni), una proposta varata nel 1979 dal Congresso nazionale del popolo della Repubblica popolare cinese con il fine di avvicinare la Cina continentale e Taiwan attraverso Kinmen, agevolando e fornendo servizi alle comunità isolane locali. In breve, l’intero arcipelago (abitato ora da circa 129.000 persone) si è trasformato nella contea più “pro Pechino” di tutta Taiwan.



La possibile “Crimea asiatica”

Nel gennaio 2020, il presidente cinese Xi Jinping ha citato esplicitamente Kinmen, sottolineando il pieno sostegno di Pechino per accelerare la creazione di “Nuovi quattro collegamenti”, e cioè elettricità, gas naturale, acqua e ponti. Da queste parti, insomma, l’influenza del Dragone è molto forte. I cittadini sembrano essere sempre più attratti dal miracolo economico cinese, tanto che è lecito supporre che Kinmen, agli occhi della leadership comunista, possa fungere da trampolino di lancio per le ambizioni della Cina su Taiwan.

Nel frattempo, l’ombra cinese, questa volta molto più minacciosa, si sta allungando anche in un altro arcipelago taiwanese. I cittadini delle Isole Matsu sono rimasti letteralmente isolati dal mondo dopo che alcune navi cinesi hanno – in teoria casualmente – danneggiato i due cavi Internet sottomarini che collegano le piccole isole a Taiwan.

Il primo cavo è stato tagliato il 2 febbraio, l’altro pochi giorni dopo, l’8 dello stesso mese. In base ai registri di spedizione risalenti a quella settimana, Taipei ritiene che negli incidenti possano essere stati coinvolti un peschereccio e un mercantile cinesi. Alcuni membri del Partito Democratico Progressista taiwanese ipotizzano tuttavia che questi atti non siano da ricondurre a semplici incidenti, ma che rientrino in probabile tattiche da “zona grigia” avallate da Pechino.

Anche perché, secondo le autorità di Taiwan, i cavi che collegano l’isola principale di Taiwan con le isole Matsu, le isole Quemoy, le isole Penghu e altre isole – e collegano anche queste isole tra loro – dal 2020 ad oggi sono stati danneggiati 30 volte a causa dell’attività umana. Si capisce che stiamo parlando di un numero sproporzionato di incidenti, se lo confrontiamo con i 100-200 casi di danneggiamento che ogni anno colpiscono cavi simili nel resto del mondo.

In ogni caso, l’effetto blackout, l’ideale per tentare possibili blitz sul modello Crimea, è stato assicurato. All’improvviso, i cittadini delle Isole Matsu non riuscivano più ad inviare messaggi, caricare video online, effettuare bonifici bancari o utilizzare carte di credito. L’interruzione di Internet ha insomma evidenziato una vulnerabilità critica della sicurezza di Taiwan, la quale non è attualmente in grado di salvaguardare le proprie comunicazioni in caso di guerra con la Cina.

“L’incidente di Matsu in realtà serve come segnale di avvertimento per Taiwan. Cosa faremo se i 14 cavi marittimi internazionali di Taiwan venissero danneggiati?”, ha dichiarato Lii Wen, capo della sezione Matsu del principale Partito Democratico Progressista, al Telegraph. Una domanda niente affatto banale, considerando che un’ipotetica interruzione di Internet di Taiwan, in caso di offensiva cinese, potrebbe ostacolare la capacità di Taipei di chiedere aiuto ad altre nazioni o anche semplicemente di informare i propri cittadini su quanto sta avvenendo.

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