Il festival è una cosa che in natura non esiste, creato dalla Rai. Lo spettacolo mainstream per eccellenza è l’archetipo dell’evento nazionalpopolare. C’è una covata di ragazzi furbetti, ornati di bimbi con le ali, di mammine in platea con la lacrima sul viso, di orgoglio da gay pride, a sgomitare per far notare non l’ugola, men che meno l’originalità della musica, che non c’è, ma la trasgressione casereccia, sdoganata a prescindere dalla benedizione preventiva. Il commento di Pino Pisicchio

E che gli vuoi dire al festival dopo che è stato benedetto nientedimeno che dal Capo dello Stato, che ha incollato ai teleschermi folle di italiani, 12,250 milioni, compresi adolescenti imberbi e nonne dell’età di Peppino di Capri, che ha scorazzato per i “social”citandoli con l’orgoglio del “late comer” ad ogni passo come fossero Vangelo, che ha fatto mandare dalla mamma migliaia di pulzelle a prendere il latte? E che gli vuoi dire? Niente.

Clap, clap, clap, come si fa coi fumetti per battere le mani, “l’evento” ci sta. La musica? Un accessorio del tutto trascurabile, come sempre del resto. Lo spettacolo mainstream per eccellenza – costo per la Rai non meno di 18 milioni, ma ritorno in pubblicità lo scorso anno 38, quest’anno di più – è l’archetipo dell’evento nazionalpopolare, la sua idea platonica. E nelle idee platoniche la musica non c’è. C’è una covata di ragazzi furbetti, ornati di bimbi con le ali, di mammine in platea con la lacrima sul viso, di orgoglio da gay pride, di siparietti omo-hard con il signor Ferragni quasi violentato da un giovanotto che si fa chiamare Rosa, eccetera, a sgomitare per far notare non l’ugola, men che meno l’originalità della musica, che non c’è, ma la trasgressione casereccia, sdoganata a prescindere dalla benedizione preventiva.

Tutto bene? Basta capirci prima. Sanremo è un metaverso, una cosa che in natura non esiste, creato dalla Rai: un intrattenimento dal sapore antico con la scansione dello show anni ‘60, musica di poco impegno inframmezzata da siparietti con gag e incroci di spettacolo finto-improvvisato, il bravo presentatore e le donnine di contorno. La concessione al contemporaneo è la dose massiva di “fluidità”, il tardo hip pop, l’occhiata alle cose tristi del mondo che ci gira attorno, per non sembrare troppo leggeri in mezzo a tanto disastro. Con questi limiti un dinosauro come il festival nel 2023 ha fatto cose egregie. Ha agganciato il digitale di Instagram, Twitter e Tik Tok, recuperando pezzi di spettatori giovanissimi che non capiscono perché a casa i genitori si ostinino a tenere quello strano elettrodomestico che chiamano televisore. E la cosa non era affatto scontata. C’è di più: recuperando quote generazionali alla televisione, ne ha riaffermato l’egemonia perduta, riportando il mezzo al centro della comunicazione. Pare che se ne sia accorto anche il governo, che adesso ne cambierà in un amen la governance. Effetti collaterali.