Dimmi di cosa parli e ti dirò che cosa ti interessa. Il discorso dello stato dell’Unione di Joe Biden, il secondo dall’inizio del suo mandato, è per due terzi dedicato alla politica economica, per un terzo al razzismo e a problematiche identitarie (fra cui l’immigrazione) mentre solo qualche parola è stata spesa per la politica estera.
Due minuti di Ucraina
Per sentire qualcosa sull’Ucraina occorre attendere più di un’ora di discorso. Frasi incoraggianti, dedicate soprattutto all’ambasciatrice Oksana Markarova (ospite al Congresso), “saremo con voi per tutto il tempo necessario”, senza limiti di sorta. Parole che hanno ottenuto un applauso bipartisan, anche dai Repubblicani (non tutti, ma quasi). Però, appunto, sono due minuti in tutto il discorso e non è certo il tema di primo piano. Subito dopo viene l’argomento Cina, a cui il presidente americano dedica già più tempo.
Osservatori politici hanno giustamente osservato che questo discorso sia la premessa della nuova campagna elettorale di Biden. Dunque, l’anziano presidente avrebbe tutta l’intenzione di candidarsi. Ma proprio per questo, l’assenza di politica estera, in questi tempi di quasi guerra mondiale, deve far riflettere.
La minaccia russa non fa presa
Come è possibile che, per attrarre consensi, occorra trascurare un argomento così importante, proprio quando Russia e Cina, ormai alleate di ferro, sfidano gli Stati Uniti e la loro egemonia mondiale?
Vladimir Putin, invadendo di punto in bianco un grande Paese europeo e minacciando di usare armi nucleari quasi tutte le settimane, sta superando tutte le peggiori fantasie degli americani, si candida a battere i peggiori villains della Marvel e della DC Comics, ha già superato di diverse leghe la perfidia di altri (reali stavolta) nemici pubblici degli Usa come Khomeini, Gheddafi e Saddam Hussein.
Eppure, l’idea che Putin sia una minaccia non fa presa nell’opinione pubblica americana. Un fenomeno ben strano da capire, soprattutto considerando che, pur combattendo contro gli ucraini, Putin rivolge le sue minacce soprattutto agli Stati Uniti.
I sondaggi dimostrano questa mancanza di interesse e di percezione del pericolo. Secondo un rilevamento del Pew Research Center del 31 gennaio, solo il 35 per cento degli americani (il 29 fra gli elettori repubblicani e il 43 fra quelli democratici) ritiene che l’invasione russa dell’Ucraina sia una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti.
A marzo 2022, ad invasione appena iniziata, questa percentuale era del 50 per cento degli americani. Già un dato molto basso, considerando la posta in gioco.
Si può dire che Putin non abbia dato una grande dimostrazione di potenza militare, ma nemmeno i nemici storici degli Usa, come Khomeini e Gheddafi, erano militarmente potenti. Eppure erano visti come chiare minacce alla sicurezza degli Usa.
Si può anche dire che l’Ucraina è lontana, fisicamente e spiritualmente, dagli americani. Ma anche il Kuwait lo era, eppure la reazione alla sua invasione da parte di Saddam Hussein è stata corale e inequivocabile (e il fattore “petrolio” non è sufficiente a spiegare la reazione dell’opinione pubblica americana).
Il problema è nell’elettorato
Non si può dire che l’amministrazione Biden si sia disinteressata all’Ucraina. Tutt’altro. Ha donato al Paese aggredito ben 110 miliardi di dollari, in aiuti economici e militari, più di quel che viene dato agli alleati degli Stati Uniti.
Ma è significativo che si possa parlare solo a bassa voce della guerra in corso e dell’aiuto americano a Kiev. Perché evidentemente è un tema ancor più divisivo rispetto all’economia, alla sanità e all’immigrazione e perché non è elettoralmente “conveniente” discuterne in pubblico.
Il problema è proprio nell’elettorato, in particolar modo in quello repubblicano, all’opposizione. Nelle elezioni del 2024 potrebbe addirittura essere vincente proporre la fine definitiva degli aiuti all’Ucraina, come sostiene una fetta sempre più ampia del Grand Old Party. Biden, anche per questo, non vuole farsi scippare l’argomento.
La propaganda russa
Perché questo cambiamento nell’opinione pubblica? Perché Putin, con le sue 1500 testate nucleari strategiche puntate sugli Usa, non è visto come una minaccia, non quanto lo erano i vari Saddam, Gheddafi e Khomeini a suo tempo? Qui la risposta non può che essere una: la propaganda russa ha lavorato molto bene negli Stati Uniti.
I Democratici e i loro alleati si sono dati un gran daffare per trovare le prove di un Russiagate senza concludere nulla e polarizzando ulteriormente la politica estera (“i Repubblicani con Trump e Putin, noi Democratici con Zelensky e la libertà”), ma è sfuggito loro che i propagandisti russi, già prima di Trump, stavano cambiando la testa degli americani, lavorando molto più a bassi livelli, nei social network e nelle televisioni, facendo passare messaggi terra-terra, tanto falsi quanto efficaci.
Prima, già ai tempi di Obama e della sua politica di appeasement, hanno imposto il concetto che gli Usa non abbiano interessi nelle questioni aperte dalla Russia in Europa e in particolare nel suo ex impero sovietico. Poi hanno convinto i conservatori che la Russia si batte per gli stessi loro valori cristiani.
Al tempo stesso, hanno rinverdito la paura mai sopita della guerra nucleare. Quindi: “non c’entrate nulla con la nostra guerra, ci battiamo per i vostri stessi valori, ma se intervenite possiamo radervi al suolo con un Armageddon nucleare”. Una strategia comunicativa molto efficace, evidentemente: ora gli americani ci credono.