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Nuovi F-16 alla Turchia: il prezzo da pagare per allargare la Nato

Gli alleati chiamano, gli Stati Uniti rispondono. La Casa Bianca è pronta a chiedere al Congresso l’approvazione della vendita di 40 jet militari di tipo F-16 alla Turchia. A rivelarlo, in esclusiva, il Wall Street Journal, che cita fonti di alto livello del governo americano.

Sembra un volo pindarico, ma non lo è. La mossa degli Usa ha un unico e sottinteso scopo: accontentare le richieste di Ankara per non ostacolare ulteriormente l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, la cui adesione è rimasta congelata a causa di Ungheria e Turchia, gli ultimi due Stati a non aver ancora ratificato la domanda delle due nazioni scandinave.

Le richieste della Turchia

Oltre alla linea dura sui Curdi, il governo turco reclama maggiori rassicurazioni. L’amministrazione Biden, infatti, avrebbe incluso nel già di per sé cospicuo pacchetto pure 900 missili terra-aria e 800 bombe. In totale, più di 20 miliardi di dollari da versare al tesoro americano, che si impegna a rinnovare la flotta aerea del principale membro del Patto Atlantico nel Mar Nero, costituita da un’ottantina di velivoli dello stesso modello. Sempre secondo il Wsj, la richiesta della Casa Bianca verrà notificata al parlamento la prossima settimana, quando sarà atteso a Washington in visita ufficiale il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu.

Con un altro accordo separato, invece, la Grecia riceverà una trentina di F-35, tra gli aeromobili da guerra occidentali più avanzati. Atene aveva chiesto al governo Usa una nuova consegna nel giugno scorso. Ma potrebbe far storcere il naso la scelta di rendere pubbliche queste due vendite nello stesso giorno, se non altro perché Ankara si è aggiudicata dei mezzi “inferiori” rispetto ai più ambiti F-35 elargiti ai rivali storici. Tra Grecia e Turchia poi, non è un mistero, c’è un’annosa competizione che puntualmente si traduce in un frenetico aumento dell’escalation e delle tensioni sulle isole del Mar Egeo.

Il quotidiano statunitense riporta il commento di un funzionario dell’amministrazione Biden, che ha descritto la situazione usando la metafora del bastone e della carota alludendo alla Turchia di Erdoğan. Negli ultimi tempi il neo sultano, in difficoltà nei sondaggi alla vigilia delle presidenziali della prossima primavera, ha spesso accarezzato l’ipotesi di un nuovo intervento in Siria contro l’Ypg. Le tattiche di persuasione quantomai conciliatorie usate da Washington questa volta potrebbero funzionare.

I dubbi del Congresso

A placare l’entusiasmo turco e greco potrebbero essere, paradossalmente, gli americani stessi. La garanzia della Casa Bianca arriva in un periodo storico dove il consenso parlamentare su questi temi non è più unanime come in passato. Da un lato, i repubblicani, freschi di maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, hanno chiesto una riduzione del budget da destinare alla difesa; dall’altra, i democratici al Senato non hanno nascosto le loro riserve in merito alla possibilità di proseguire pacificamente ad armare regimi ibridi come quello turco.

Il presidente della commissione Affari esteri del Senato Usa, il dem Bob Menendez del New Jersey, si oppone a qualsiasi accordo sul commercio delle armi con la Turchia. Per Menendez ci sarebbe un’incompatibilità con i capisaldi della politica estera americana, cioè il rispetto dello stato di diritto e dei diritti umani, pertanto non è auspicabile né negoziabile un’intesa con Erdoğan, neppure per ragioni di Stato.

Il potente senatore del New Jersey ha già manifestato questa sua fermezza con l’Arabia Saudita di Mohammed Bin Salman – mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi –, minacciando il deterioramento delle relazioni bilaterali e lo stop alla cooperazione con Riad dopo il taglio alla produzione del petrolio dell’Opec, percepito come un assist a Mosca per alleviare le sanzioni occidentali. La vendita sarà ad ogni modo approvata, ma non prima senza un acceso dibattito. Il Congresso ora avrà 30 giorni a disposizione per esprimersi.

La realpolitik di Biden: F-16 in cambio di una Nato più forte

Nel caso in questione stupisce però la giravolta del presidente americano nei confronti del suo omologo turco. Ecco cosa diceva Biden su Erdoğan in un video del 2019, dopo aver annunciato la candidatura alle primarie presidenziali (poi vinte) del suo partito: “Penso che ora dovremmo adottare un approccio molto diverso nei suoi confronti, chiarendo che sosteniamo la leadership dell’opposizione. […] Deve pagare un prezzo per il fatto che continueremo o meno a vendergli certe armi e se ha il sistema di difesa aerea con cui volano gli F-15 sono molto preoccupato. Ma sono ancora dell’idea che se ci impegnassimo più direttamente, come stavo facendo con loro, potremmo sostenere quegli elementi della leadership turca che ancora esistono e ottenere di più da loro e renderli capaci di affrontare e sconfiggere Erdoğan non con un colpo di stato, ma alle elezioni“.

Un Biden folgorato sulla via di Damasco, evidentemente soddisfatto della buonafede di Recep Tayyip Erdoğan, buonafede di cui ha sempre dubitato Barack Obama, sostenitore dietro le quinte del controverso golpe del 2016. L’accordo sugli F-16 rappresenta il trionfo della realpolitik sull’idealismo proclamato in campagna elettorale. Perché talvolta non bastano vaghe e vuote promesse per rivoluzionare un sistema di alleanze così solido e strutturato come quello transatlantico. Prevarrà sempre un approccio conservativo. Quando l’ordine globale sembra scricchiolare, cercare la stabilità può aiutare a uscire più forti dalle crisi internazionali. E la Nato, partecipante passiva alla guerra in Ucraina, vuole rinforzarsi.

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