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Mohamed Atta, il volto dell'11/9

L’11 settembre 2001 il mondo cambiava per sempre. In peggio. Quel giorno finiva l’illusione del Duemila quale secolo di pace mondiale e iniziava una guerra infinita, senza quartiere, destinata a riscrivere la geografia del potere in Eurasia: la Guerra al Terrore.

L’11 settembre 2001 l’Internazionale jihadista colpiva il cuore simbolico del capitalismo finanziario globale, le Torri gemelle, attraverso una nuova Pearl Harbour destinata a rimanere nella storia e nell’immaginario collettivo degli Stati Uniti e di tutto il mondo.

L’11 settembre 2001 fu il giorno dell’America, di George Bush Jr, di Rudolph Giuliani e di ogni newyorkese. E fu anche il giorno di Osama bin Laden e dei suoi diciannove attentatori suicidi, in particolare Mohamed Atta, colui che, ancora oggi, viene ricordato come il volto dell’11/9.

Muḥammad ʿAṭā al-Sayyid, popolarmente noto come Mohamed Atta, nacque il 1 settembre 1968 a Kafr el-Sheikh, in Egitto, all’interno di un contesto familiare piuttosto agiato. Il padre, Mohamed el-Amir Awad el-Sayed Atta, era un avvocato. La madre, Bouthayna Mohamed Mustapha Sheraqi, apparteneva a una ricca famiglia di commercianti.

Unico figlio maschio dei coniugi Atta, che prima di lui avevano avuto due femmine, il giovane fu destinatario di un’educazione rigida, severa e austera. I genitori avevano dei piani per lui, come li avevano per le figlie maggiori, che, una volta adulte, sarebbero diventate una dottoressa e una professoressa. Ma Atta, nonostante un futuro promettente – tra gli studenti con le prestazioni più elevate dalla primaria all’università –, avrebbe preso un’altra strada.

Nel 1985, su impulso dei genitori, Atta si iscriveva alla facoltà di architettura e ingegneristica dell’università del Cairo. Entro il 1989, ultimo anno del corso di laurea, la media alta gli avrebbe consentito l’accesso ad un programma specializzante a numero chiuso. L’anno seguente, 1990, il conseguimento della laurea.

Atta padre, ottenuta la laurea, ora voleva di più. Esigeva, nel 1990, che il figlio si trasferisse in Germania per completare gli studi. Atta aveva vissuto tutta la vita a subire le imposizioni del padre, estese dall’amore alle amicizie, e non ne poteva più. In Germania, lontano da casa e dal padre, avrebbe potuto trovare l’agognata libertà e costruirsi un’esistenza autonoma. Accettò. Partenza nel 1992.

La Germania avrebbe dovuto portare libertà nella vita di Atta, ma si sarebbe rivelata la sua rovina. Non era, evidentemente, ciò che aveva immaginato che fosse. Scoprì di non andare d’accordo coi tedeschi, dei quali aborrava lo stile di vita libertino, e questo gli avrebbe procurato prima problemi abitativi – difficoltà nel condividere alloggi con altri studenti – e poi ne avrebbe aggravato lo spirito solitario.

Ad Amburgo, dove si iscrisse al programma di pianificazione urbana presso l’Università di tecnologia, Atta avrebbe sviluppato una vera e propria ossessione per l’Islam, fino ad allora vissuto come una delle tante imposizioni del padre. Ma lì, solo in una società in cui non si riconosceva, era diventato un’ancora di salvezza, un modo per sentire la terra natìa.

Il processo di autoradicalizzazione sperimentato da Atta avrebbe avuto riverberi persino all’università. Lui, un amante dell’architettura, era adesso diventato contrario ai grattacieli e a tutto ciò che avesse a che fare con gli stili contemporanei occidentali. L’architettura occidentale, impersonale e antiestetica, avrebbe finito col rovinare i paesaggi urbani dei paesi arabi, privandoli di sacralità e identità. Il supervisore di Atta, il professore Dittmar Machule, trovava le idee del proprio studente bizzarre, finanche eterodosse, ma senza intravedervi dei segnali di radicalizzazione.

Autoradicalizzazione. L’invasione dell’Iraq, gli accordi di Oslo, l’antisemitismo e le politiche mediorientali degli Stati Uniti erano i principali argomenti di ogni conversazione tra Atta e i suoi due coinquilini. Conversazioni che, col tempo, sarebbero diventate sempre più accese e cariche di livore. Nel 1996, infine, la svolta silenziosa: la scrittura di un testamento, ritrovato dopo l’11/9, provante l’avvenuta decisione di dare la vita per la causa dell’Islam radicale.

Nel 1997, dopo aver chiesto al proprio supervisore del tempo in più per la scrittura della tesi a causa di presunti problemi familiari, Atta si sarebbe dato alla macchia per un anno. Ignoto, ancora oggi, dove Atta fosse andato e perché. Anche se la denuncia di smarrimento del passaporto, fatta al ritorno ad Amburgo, potrebbe suggerire che si fosse recato in luoghi di cui era preferibile cancellare ogni traccia.

Nel 1998, dopo il viaggio del mistero, Atta abbandona l’alloggio in condivisione in cui ha vissuto per sei anni. Si trasferisce poco distante, a Wilhelmsburg, con dei nuovi inquilini: Said BahajiRamzi bin al-Shibh. Nonostante i comportamenti ambigui, nonché l’aspetto differente – barba lunga, vestiario islamico –, tutto sembra procedere normalmente: Atta continua a lavorare e nel 1999 si laurea. Ma, dietro l’apparente normalità, si celano dei terribili segreti.

A cavallo tra il 1998 e il 1999, indisturbati e insospettabili, Atta, Bahaji e bin al-Shibh hanno formato una cellula terroristica nel loro nuovo appartamento amburghese, nel quartiere Harburg, a pochi passi dall’Università di tecnologia. Il gruppo, al quale si aggiungeranno prima dei radicalizzati e poi dei qaedisti, verrà successivamente ribattezzato dalla stampa la “cellula di Amburgo“.

L’appartamento di Harburg è il luogo in cui Atta può parlare liberamente di antiamericanismo, di antisionismo e di come vendicare i correligionari che quotidianamente, tra Iraq e Palestina, soffrono a causa delle politiche occidentali. Il sogno di Atta è di vendicare i palestinesi per gli accordi di Oslo, gli iraqeni per la prima guerra del golfo e, in generale, i musulmani per ciò che subiscono dai loro governi corrotti e dall’imperialismo occidentale.

Radicalizzazione chiama radicalizzazione e l’appartamento di Harburg, presto, diventa il luogo di incontro dei musulmani radicali di Amburgo e dintorni. Qui è dove trascorreranno del tempo, infatti, anche Ziyad Samir Jarrah, Marwan al-Shehhi e Zakaria Essabar – tre dei futuri attentatori dell’11/9. Ed è dove giocherà un ruolo-chiave nella radicalizzazione dei giovani, quasi tutti studenti, un oscuro figuro rispondente al nome di Khalid al-Masri, il possibile alias di un individuo che non è mai stato catturato.

Sul finire del 1999, ormai convinti dei loro propositi terroristici, Atta, Shehhi, Jarrah, Bahaji e bin al-Shibh si recano in Afghanistan su suggerimento-ordine di al-Masri. Una volta qui, esaminati dal reclutatore Mohammed Atef, vengono ritenuti i soggetti ideali per traslare in realtà un grande piano di bin Laden. Di lì a breve la conoscenza del capo di Al-Qāʿida, nei pressi di Kandahar, al quale giurano fedeltà, e l’inizio di un intenso addestramento.

22.3.2000. Atta, dalla Germania, inizia ad inviare email a più di cinquanta scuole di addestramento aereo con base negli Stati Uniti. Oggetto: il desiderio di imparare a pilotare aerei civili. Obiettivo: ricevere addestramento per la missione che lo porterà nell’Olimpo dei jihadisti.

18.5.2000. Atta, dopo una fulminea disamina delle credenziali, ottiene un visto di cinque anni negli Stati Uniti. Meno di un mese dopo, il 3 giugno, la partenza. Più o meno negli stessi giorni, dopo aver ottenuto anch’essi il visto, bin al-Shibh e al-Shehhi partiranno alla volta degli Stati Uniti da aeroporti diversi, rispettivamente Praga e Bruxelles, per non destare sospetti.

6.7.2000. Atta, al-Shehhi e Jarrah, arrivato alcuni giorni prima, si iscrivono presso la scuola di aviazione Huffman di Venice, in Florida, per seguire un corso di addestramento accelerato. A pagare tutto, dall’alloggio agli studi, un tale – all’epoca – al di sopra di ogni sospetto: Ammar al-Baluchi.

22.12.2000. Atta, che ha cominciato a pilotare da solo da fine luglio e da un mese ha ottenuto la licenza per il pilotaggio di voli commerciali dall’Amministrazione federale dell’aviazione, inizia un corso per la conduzione di aerei per il trasporto passeggeri a corto e medio raggio. È il più portato del gruppo, colui che primo finisce i corsi, peraltro con le prestazioni più elevate, e che riceve le certificazioni.

9.7.2001. Atta e bin al-Shibh iniziano un soggiorno spagnolo, terminato in una località sconosciuta, per ricevere le ultime istruzioni da alcuni qaedisti. L’incontro prima dell’attentato. Atta conferma che tutti gli attentatori sono arrivati negli Stati Uniti. Bin Laden, attraverso gli operativi spagnoli, espone alcune preoccupazioni, fornisce gli ultimi ordini e indica quelli che dovranno essere gli obiettivi dei piloti suicidi: World Trade Center, Pentagono e Campidoglio.

4.8.2001. Atta, da tempo rientrato negli Stati Uniti, si reca all’aeroporto internazionale di Orlando per prelevare colui che avrebbe dovuto essere il ventesimo attentatore, il saudita Mohammed al-Qahtani. Ma c’è un problema: al-Qahtani è stato fermato dall’immigrazione perché sospettato di voler rimanere illegalmente nel paese e, perciò, gli verrà rifiutato l’ingresso.

10.9.2001. Atta si reca a Boston per prelevare Abdulaziz al-Omari, uno dei futuri attentatori, e con lui imbarcarsi all’aeroporto internazione generale Edward Lawrence Logan. Poco prima della partenza la chiamata dall’amico al-Shehhi, che lo informa di essere pronto a dirottare il proprio volo e gli porge un ultimo saluto. La mattina dell’11/9, attorno alle 8 e un quarto, l’inizio del dirottamento che si concluderà mezzora dopo contro la torre nord del World Trade Center. Il resto è storia.

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