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L'operazione Ciclone e l'arte di vincere senza combattere

Stati Uniti, 1978. Sono passati cinque anni dall’ignominiosa fine della guerra in Vietnam, che un magistrale Henry Kissinger ha saputo vendere al pubblico domestico e internazionale come una pace giusta e non disonorevole, e tra Casa Bianca, Pentagono e Langley regna un sentimento misto di arrendevolezza, sconforto e voglia di rivalsa. L’Unione Sovietica, il gigante antiamericano, è in piedi, è stata galvanizzata dal successo vietnamita, e all’orizzonte sembra stagliarsi una guerra fredda infinita. La fine dello scontro egemonico del XXI secolo, invece, è alle porte.

In un remoto Paese di nome Afghanistan, che gli occidentali hanno sentito di sfuggita in relazione al Torneo di ombre russo-britannico dell’Ottocento, è avvenuto un evento rivoluzionario: i comunisti hanno assunto il comando delle istituzioni e si apprestano a traghettare in una modernità socialisteggiante gli abitanti di una multinazione dove il tempo sembra essersi fermato secoli addietro. Per gli osservatori più pessimisti è l’ennesima sconfitta, un altro tassello caduto a favore del domino sovietico, ma per un acuto geostratega di origini polacche, Zbigniew Brzezinski, è una manna dal cielo.

Brzezinski è il teorico della cosiddetta “geopolitica della fede“, ha appena convinto la presidenza Carter – presso la quale serve come consigliere per la sicurezza nazionale – ad imbarcarsi nella rischiosa impresa di abbattere il regime comunista polacco con l’aiuto della Chiesa cattolica, e ritiene possibile l’applicazione del “formato rosario” anche nel mondo islamico. La Mezzaluna e stella contro Marx.

Profondo conoscitore dello spazio postsovietico, al quale la storia avrebbe dato ragione nell’arco di un decennio, Brzezinski inizia a discutere di Afghanistan e di Islam in Unione Sovietica con tre colleghi molto ferrati sull’argomento: Jeremy Azrael, Paul Henze e Alexandre Benningsen. Le conversazioni con quest’ultimo, in particolare, saranno illuminanti: Brzezinski aveva intuito del potenziale, ma non aveva idea di quanto i musulmani avessero resistito all’ateizzazione forzata né aveva conoscenza approfondita del loro lungo trascorso conflittuale con Mosca.



Dai faccia a faccia tra i membri del quartetto sarebbe nato il Gruppo di lavoro sulle nazionalità (Nationalities Working Group), un’entità posta sotto l’egida di Brzezinski e operante di concerto con la Central Intelligence Agency. Obiettivo del Gruppo di lavoro sulle nazionalità, precursore di Ciclone, sarebbe stato lo studio di fattibilità di una trasposizione della geopolitica della fede in Afghanistan.

I segnali raccolti dall’intelligence premettevano e promettevano di convertire l’Afghanistan in una sorta di Vietnam, coi sovietici al posto degli americani e con un’armata di jihadisti in luogo dei vietcong. Instabilità politica – la lotta tra Taraki e Amin. Malcontento sociale – conservatori e pastori delle aree rurali, cioè la stragrande maggioranza del paese, in rivolta contro la modernizzazione forzata dei comunisti. E vicinato in fermento – Pakistan e Iran interessati a sfruttare la situazione per ripristinare la loro antica influenza sulla terra dei pashtun.

Nel maldestro tentativo di porre fine al governo Amin, la cui autonomia decisionale era fonte di disturbo per il Cremlino – patrocinatore della “dottrina della sovranità limitata” – e il cui ricorso smodato alla violenza aveva innescato una quasi-guerra civile, aggravata dalla triangolazione Washington-Islamabad-Teheran – che da alcuni mesi avevano iniziato ad inviare armi e altri prodotti militari alla germogliante galassia dei mujāhidīn –, il 24 dicembre 1979 avrebbe avuto inizio l’invasione sovietica dell’Afghanistan. L’Orso era caduto in quella che la stampa americana avrebbe successivamente ribattezzato la “trappola afgana”. Adesso poteva cominciare l’operazione Ciclone.

Truppe sovietiche nei pressi di Jalalabad durante la guerra

La dottrina sovietica dell’espansione della propria sfera di influenza attraverso l’esportazione del socialismo (anche con la forza) per ottenere Paesi “a sovranità limitata” non poteva che cozzare contro quella statunitense del “contenimento”, che Washington, nonostante l’esito tragico del conflitto vietnamita, non aveva mai abbandonato.

L’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 ha offerto un’occasione d’oro, per gli Stati Uniti, di erodere il potenziale bellico e la stessa tenuta del sistema dei soviet, così come Mosca aveva fatto durante il lungo conflitto in Indocina. Solo con l’avvento della presidenza Reagan nel 1981, però, Washington impegna ingenti capitali e risorse per sostenere la multiforme resistenza afghana e dissanguare l’Unione Sovietica nel Paese definito come “la tomba degli imperi”.

L’operazione segreta, definita “Cyclone” (ciclone), aveva obiettivi abbastanza semplici: il sostegno statunitense sul terreno a elementi antisovietici e anche a quelli contrari al governo comunista in Afghanistan per intrappolare i sovietici in un conflitto senza possibilità di vittoria e minare profondamente non solo il potenziale bellico/industriale dell’Unione Sovietica, ma la stessa tenuta del morale della popolazione. Una tale azione avrebbe permesso di soddisfare perfettamente i principi della dottrina del contenimento e avrebbe ridotto l’influenza dell’Unione Sovietica nella regione senza impegnare le forze armate in modo convenzionale, ovvero senza un impegno militare diretto come accaduto in Vietnam.

ll sostegno ai mujāhidīn era iniziato come ogni altro intervento: la Central Intelligence Agency aveva fornito loro aiuti “non letali” come attrezzature per le comunicazioni e sostegno umanitario. Tuttavia, quando i sovietici dimostrano di volersi impegnare seriamente in Afghanistan, gli Stati Uniti alzano il loro livello di supporto.

Il punto di svolta viene fatto coincidere con la decisione di armare i mujāhidīn con il nuovo FIM-92 Stinger, un MANPADS (Man Portable Air Defence System) in grado di colpire efficacemente velivoli al di sotto dei 6mila metri di quota, nella fattispecie l’elicottero da combattimento sovietico (il Mil Mi-24) che mieteva vittime tra la resistenza afghana, tanto da essersi meritato il soprannome di “carro del diavolo”. L’arrivo di questi MANPADS ha avuto effetti devastanti più sul piano morale che su quello tattico: il dominio dei cieli afghani era stato per la prima volta contestato allo strapotere sovietico costringendoli a impiegare tattiche di combattimento differenti e meno efficaci per il solo timore della possibile presenza degli Stinger.



L’operazione Ciclone durò complessivamente per un decennio (dal dicembre del 1979 al febbraio del 1989) e ha coinvolto anche il governo pakistano che ha messo a disposizione della CIA la rete di intelligence sviluppata dall’ISI, l’Inter-Services Intelligence. Le risorse dell’ISI sono state in grado di fornire canali e mezzi con cui gli Stati Uniti hanno potuto armare la resistenza afghana e sono state il terminale ultimo della pioggia di dollari che ha inondato la regione in quel decennio. Il Pakistan è stato il partner perfetto in quest’operazione anche perché Washington ha potuto sfruttare i legami etnici che i pashtun pakistani avevano con quelli afghani.

L’invasione sovietica in Afghanistan è spesso vista come l’inizio della fine dell’Urss come sistema politico ed entità geopolitica: al termine del conflitto l’Unione Sovietica aveva le finanze in rosso e la sua immagine, soprattutto sul fronte interno, era andata in pezzi.

Gli Stati Uniti, animati da realismo politico, hanno cinicamente sostenuto anche le fazioni più estremiste della resistenza afghana e, una volta cessato il conflitto, l’abbandono del Paese a sé stesso ha avuto come risultato la nascita dei talebani. Sostanzialmente, eliminando l’occupazione sovietica in Afghanistan e non provvedendo alla ricostruzione del Paese hanno gettato le basi per la nascita dei loro nuovi nemici che li impegneranno in un nuovo, tragico e inutile conflitto poco più di 10 anni dopo.

Rimuovendo i sovietici e il governo fantoccio di Kabul hanno creato un vuoto di potere che non hanno voluto colmare; un vuoto di potere che comunque non è stato possibile colmare data la natura di quel Paese come ha dimostrato il secondo e più recente conflitto afghano. Una lezione che dovrebbe essere stata appresa dagli analisti politici e militari statunitensi e occidentali.

Mappa di Alberto Bellotto

Con l’invasione sovietica dell’Afghanistan gli Stati Uniti hanno potuto mettere in pratica su vasta scala (ovvero contro una potenza militare convenzionale) il concetto di guerra attraverso proxy proprio tramite l’operazione Cyclone.

Quel conflitto ha fatto “scuola” su entrambi i fronti: l’esperienza di counterinsurgency maturata dai sovietici è stata profondamente disaminata negli anni successivi e ha generato un nuovo concetto di guerra ibrida in salsa russa (definita inizialmente Political Warfare) grazie al lavoro dei generali Gareev e Slipcenko nel 1995, per poi maturare col lavoro del colonnello Cekinov e del generale Bogdanov andando così a formare la Hybrid Warfare russa come noi la conosciamo. Dall’altro lato ha permesso all’esercito russo di fare il primo passo verso la riorganizzazione delle operazioni convenzionali in un contesto asimmetrico, maturate poi coi due conflitti in Cecenia, e i cui frutti si stanno raccogliendo in Siria.

Gli Stati Uniti, dopo l’ubriacatura data dall’esito positivo del rapido conflitto in Iraq nel 1991 e le operazioni nei Balcani negli anni ’90 (effettuate solo dall’aria), sono incappati nel medesimo errore dei sovietici ben due volte: ancora in Iraq, nel 2003, e sempre in Afghanistan, come già detto, tra il 2001 e il 2021. Come sappiamo le due guerre hanno avuto esiti molto diversi e, oggi, nella “tomba degli imperi”, sono tornati al potere i talebani.

La lezione afghana degli anni ’80 non è stata quindi compresa? In realtà, se guardiamo agli ultimi 20 anni, fatta esclusione per l’intervento in Iraq e quello in Afghanistan, gli Stati Uniti si sono concentrati al sostegno di alleati e proxy per portare avanti i propri interessi in modo da delegare ad altri il contenimento di attori non essenziali e potersi concentrare maggiormente ad affrontare la sfida esistenziale data dalla Cina, soprattutto a partire dal varo della politica del pivot to Asia.

La questione ucraina è esattamente espressione di questo modus operandi: la Russia è considerata un fronte del tutto secondario nell’agenda politica statunitense, e Kiev, insieme agli alleati europei della NATO, è deputata ad occuparsene. Washington fornirà sostegno all’Ucraina finché non raggiungerà lo scopo di dissanguare la Russia per poterla considerare “inoffensiva” rispetto al dossier cinese, e in questo deputa all’Europa (o almeno così vorrebbe) lo sforzo maggiore. A riprova, gli Stati Uniti non appaiono molto felici di avere alleati europei nel teatro dell’Indo-Pacifico, guardando agli exploit di Londra e Parigi in loco con sospetto e preferendo contare su alleati e partner nell’area, nonostante la firma dell’Aukus che pure vede i britannici protagonisti.

A tal proposito il partenariato anglo-italo-nipponico per il nuovo caccia di sesta generazione e conseguente maggiore intesa strategica, oltre a essere vista con sospetto al Pentagono e alla Casa Bianca, sarà occasione di ricalibrazione di equilibri e definizione di nuovi lungo l’asse Europa-Asia.

Tornando alla questione ucraina, la lezione dell’operazione Cyclone che gli Stati Uniti (e in generale l’Occidente) faticano a comprendere è proprio la creazione di un vuoto di potere impossibile da colmare, che stavolta sarebbe russo invece di afghano. Come abbiamo già avuto modo di affermare in tempi non sospetti, durante il primo anno di guerra in Ucraina, il dopo-Putin potrebbe essere peggiore del presente, in quanto un’ipotetica disfatta russa permetterebbe il sorgere delle ali nazionaliste più intransigenti e addirittura l’avvento di personaggi che navigano in quella zona grigia tra legalità e criminalità, come il fondatore della PMC russa “Wagner” Evgenij Prigozhin.

La guerra stessa facilmente potrebbe non risolversi, e senza escalation di sorta – scenario più probabile – potrebbe diventare uno dei numerosi “conflitti congelati” dell’intorno russo confinando l’Europa in un limbo dove lo spettro di una sua riaccensione è sempre dietro l’angolo.

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