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L'elezione per acclamazione dei capigruppo di FdI e FI non rispetta le minoranze – Il Riformista

L’analisi

Michele Prospero — 4 Aprile 2023

L’elezione per acclamazione dei capigruppo di FdI e FI non rispetta le minoranze

Tornano in voga vecchi riti che sarebbe meglio archiviare. Che il Pd e Forza Italia abbiano eletto i capigruppo con il metodo dell’acclamazione rivela un nervo scoperto delle forze politiche, che nelle loro pratiche interne fanno sfoggio di una cultura delle regole estremamente fragile. In tempi di sofferenza democratica, con aggressioni alle istituzioni e appelli reiterati alla prova di forza nelle piazze in giro per il mondo, un ancoraggio solido al garantismo e alle procedure liberali più significative avrebbe un impatto positivo, di per sé non terapeutico, certo, ma comunque (modicamente) rassicurante per la tenuta dell’ordinamento costituzionale.

La malattia del parlamento è da tempo cronicizzata. La sua decadenza risulta accentuata nella cosiddetta età del pubblico, che vede il leader del momento ingaggiare una campagna elettorale permanente tesa alla conquista del gradimento dell’opinione, catturata dai riti sempre più superficiali dei media e quindi altamente volatile. Questo scivolamento organicamente plebiscitario nella relazione tra il capo e la massa (“i partiti sono partiti di capi in mano a leader”, scriveva già Carl Schmitt) comporta una curvatura generale del rapporto politico, nel segno della semplificazione e della velocità, che coinvolge l’intero continuum elettori-Parlamento-Governo.

L’ordine del leader va eseguito, e la risposta più rapida è quella dei rappresentanti che acclamano il capogruppo già designato dal segretario (in ossequio alla integrale sburocratizzazione della macchina e alla definitiva resa dei “cacicchi”). Queste scorciatoie rientrano in una forte istanza funzionale di accelerazione che l’era della rete esige ovunque in forme vorticose. Ciò non toglie che, riconosciute le insopprimibili ragioni della rappresentanza sub specie communicationis la quale certo non contempla i tempi rilassati della politica meridiana, rimangano comunque ineludibili le ragioni di una cultura delle procedure, che si oppone a tentativi di usurpazione, forzature, fughe in avanti.

Se oggi serve una resistenza al disegno neo-costituzionale della destra radicale – affondare il sistema parlamentare con l’imposizione di un regime presidenziale come segno inconfutabile della nascita di una nuova repubblica –, allora certe prassi acclamatorie, per il loro inconfondibile sapore illiberale, andrebbero scongiurate in favore di un accertamento rigoroso del grado effettivo di consenso. Prendersi cura della sopravvivenza della repubblica parlamentare è un compito storico straordinario e difficile che, se lo si vuole davvero sopportare, non ammette contraddizioni, ambiguità, superficialità. La difesa della Costituzione implica un’aspra lotta contro il senso comune che si impone invocando il capo, la decisione, l’eliminazione dei tempi della discussione.
Per questo ogni atto politico che per imprimere i segni del comando sacrifica le diverse articolazioni di una corretta forma partito (il dibattito, la conta interna, l’autonomia delle rappresentanze elettive) andrebbe accuratamente evitato.

E’ chiaro che non si può contestualmente ingaggiare un’efficace battaglia contro il presidenzialismo e poi ricorrere quale metodo per l’elezione di cariche con un alto tasso di responsabilità politica ad una scorciatoia, come quella dell’acclamazione, che rientra in pieno nel repertorio più classico delle culture conservatrici. Per le categorie di queste ultime, presidenzialismo e procedure acclamatorie si intrecciano in maniera indissolubile. Secondo Carl Schmitt (Dottrina della costituzione, Giuffrè, 1984), il meccanismo presidenzialistico implica una “unione diretta con i cittadini elettori” ovvero un’acclamazione della persona. Ciò consente al capo politico di proiettarsi “al di là dei limiti e dell’ambito delle organizzazioni e delle burocrazie di partito” per diventare immediatamente il leader che convoglia “la fiducia di tutto il popolo”. In Schmitt l’esaltazione dell’“immediato impeto” del presidenzialismo, assunto di per sé come regime dell’acclamazione, si unisce alla contestazione del parlamentarismo quale regime del voto individuale segreto e dell’“accertamento statistico della maggioranza”.

Nello Stato liberal-borghese, per il teorico conservatore tedesco, i congegni a presidio della segretezza del voto (visto come mera “somma di opinioni private”) svelano “il ripiegamento della democrazia nella protezione liberale del privato”. Ostile alla politica delle procedure e dell’aritmetica, Schmitt saluta il passaggio dall’incolore Stato di diritto, che “ignora il sovrano” (una comunità omogenea, fisicamente presente), alla variopinta età dell’“opinione pubblica”, che celebra “il popolo sempre presente”. La sua diagnosi è che “l’opinione pubblica è la forma moderna dell’acclamazione”. L’eclisse della rappresentanza e l’appannamento del principio di maggioranza, salutati da Schmitt come processi positivi, comportano il trionfo del popolo concepito quale entità mistica e unitaria che disdegna ogni procedura, limite e garanzia, e si esprime con il “grido della moltitudine riunita che approva o respinge”.

Rispetto al meccanismo del voto e del conteggio quantitativo delle preferenze “nella sfera della pubblicità”, “il popolo effettivamente riunito può acclamare, cioè esprimere con un semplice grido la sua approvazione o il suo rifiuto, gridare viva o abbasso, salutare con giubilo un capo o un progetto, fare un evviva al re o a chiunque altro, rifiutare l’acclamazione con il silenzio o il mormorio”. Quando al dispositivo dell’elezione attraverso l’espressione di voti singoli, che fanno seguito al confronto aperto tra più candidati in lizza, si sostituiscono i riti dell’acclamazione, che permette solo “il silenzio o il mormorio”, viene colpito un prezioso strumento politico di tipo garantista. La cultura delle garanzie, e quindi le misure di protezione delle minoranze, rappresentano pratiche intimamente connesse all’idea di libertà, che anche il partito “franceschleiniano” dovrebbe sempre maneggiare con cura, soprattutto davanti a una destra che bolla persino il fisiologico dissenso parlamentare sulle politiche come una manifestazione ostile al bene supremo della “Nazione”.

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