La recensione
Ilaria Donatio — 17 Gennaio 2023
Ho visto “Le otto montagne” – un film scritto e diretto da Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch – all’inizio del nuovo anno: mai mi era successo di scrivere di un film o di un libro a distanza di tanti giorni. La ragione è che mi dispiaceva molto non aver letto prima il libro di Paolo Cognetti da cui la pellicola – protagonisti Alessandro Borghi e Luca Marinelli, accanto a Filippo Timi – è tratta. Mi è parso, dunque, un compromesso accettabile – avendo poco tempo libero dopo il rientro al lavoro – ascoltare l’audiolibro durante le mie passeggiate con i cani. L’ho finito oggi.
Cosa mi hanno lasciato entrambi? La certezza che la natura non sia un’entità astratta – o meglio: solo chi vive in città e ne parla, la pensa o ne discute, la chiama così: natura – ma esiste “concretamente”, nel mondo intorno a noi. Ed è albero, foglie, terra, aria, neve, ruscello e tutto quello che è possibile toccare, odorare, calpestare. È fatica e rabbia, anche. E nel film, infatti, oltre a essere rapiti dalla bellezza del paesaggio, dal paesello di Grana, ai piedi del Monte Rosa, dalle escursioni sui pendii e dalle arrampicate, a noi spettatori sembrerà di partecipare, in egual misura, anche allo sfinimento della salita, alla stanchezza che la vita di montagna porta con sé, allo sforzo del costruire, una baita come una amicizia.
“Le otto montagne” non è, dunque, un film sulla natura, questo, anche se resterete a bocca aperta dallo stupore per la bellezza dei paesaggi, le vallate e le montagne, le cime innevate e le distese verdi, la luce che irrompe in una scena e certi scorci commoventi. Ecco: la fotografia de Le otto montagne già basterebbe da sola a motivarvi per andare al cinema e scegliere questo film. Cos’è allora? Un film su una amicizia tra due mondi, che dapprima sono due ragazzini e che poi diventano giovani uomini, che si incontrano ed entrano l’uno nell’altro. Per sempre.
Cosa è il “per sempre” nei rapporti? Beh, esistono molte relazioni a questo mondo: quasi tutte hanno bisogno di parole. Parole per indicare questo o quello, parole per riempire i vuoti, parole per fissare quello che il silenzio farebbe passare troppo presto. Solo rarissime volte, le amicizie non solo sopravvivono ma si alimentano di vita vissuta: di una passeggiata su, verso l’alpeggio, di una nuotata nelle acque del fiume, di uno sguardo di intesa che supera le distanze, le origini lontane e la complessità dei rapporti con le rispettive famiglie. In questi casi, la relazione durerà per sempre.
E supererà anni di lontananza, progetti fallimentari, tristezze incodificabili. Basterà – a un certo punto – che un amico chiami l’altro. Che quello accorra dopo 10 anni di silenzi. E nel segreto di una baita in mezzo al “nulla” coperto di bianco – un piccolo fuoco a ravvivare la luce fioca delle candele, basterà un pezzo di caciotta e una spadellata di patate cotte alla brace, basterà questo perché quei due uomini tornino a parlare il linguaggio intimo di chi si è conosciuto profondamente. E che per sempre – anche dopo la morte di uno dei due, ormai salito “sulla montagna più alta” di tutte e incapace di scendere nel mondo – resteranno vicini. Di più: l’uno nell’altro. In silenzio.
Ho scritto “Opus Gay”, un saggio inchiesta su omofobia e morale sessuale cattolica, ho fondato GnamGlam, progetto sull’agroalimentare. Sono tutrice volontaria di minori stranieri non accompagnati e mi interesso da sempre di diritti, immigrazione, ambiente e territorio. Lavoro a +Europa.
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