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Le Isole Salomone e la nuova guerra del Pacifico

In un remoto arcipelago dell’Oceania, localizzato a levante dell’Indonesia e a settentrione dell’Australia, si sta scrivendo un capitolo-chiave della competizione strategica tra Stati Uniti e Cina. È un luogo dal nome evocativo, che la geografia ha condannato al ruolo di trincea nelle cicliche guerre per l’egemonia del Pacifico occidentale. E che trincea lo è oggi come lo è stato a fine Ottocento – tedeschi contro britannici – e durante la Seconda guerra mondiale – giapponesi contro angloamericani. Questo luogo sono le Isole Salomone.

Il ritorno degli Stati Uniti nelle Salomone

L’1 febbraio 2023, dopo un trentennio di assenza, gli Stati Uniti hanno riaperto al pubblico e riportato immediatamente in operatività la loro piccola ambasciata a Honiara. Una mossa fortemente voluta dalla presidenza Biden, contraria alla linea dura della precedente amministrazione, nel contesto del rispolveramento dell’obamiano Pivot to Asia.

Il tempismo dell’inaugurazione è tutto fuorché casuale, giacché il 2023 è una data ricca di significati: ricorrenza del trentennale della “rottura salomonese-americana” e, ancor più importante, anno dei XVII Giochi del Pacifico, per la prima volta ospitati da Honiara e (ampiamente) sponsorizzati da Pechino.

La risposta della Cina, via governo Sogavare, è stata tempestiva e asimmetrica: la rimozione dall’incarico del presidente della provincia di Malaita, Daniel Suidani, storico capofila della lobby americana nello stato arcipelagico, con l’accusa di appropriazione indebita di fondi pubblici. Evento accaduto soltanto sei giorni dopo la riattivazione dell’ambasciata a stelle e strisce e che è stato accompagnato da duri scontri per le strade della provincia dalle datate velleità indipendentistiche, ventre molle delle Salomone.

L’alba della battaglia per le Salomone

Trent’anni, una generazione. Gli Stati Uniti hanno perso di vista le Salomone per trent’anni, perché focalizzati sul consolidamento del Momento unipolare e sulla conduzione della Guerra al Terrore, quasi dimenticandosi del loro valore geostrategico e lasciando alla Repubblica Popolare Cinese il tempo necessario alla loro satellizzazione.

Gli Stati Uniti, nella persona di Donald Trump, si erano accorti dell’esistenza di un problema nelle Salomone soltanto nel 2019, anno dell’adesione alla politica dell’una sola Cina, e avevano reagito in due modi: gelo diplomatico – emblematizzato dall’annullamento di una visita in loco di Mike Pence – e moniti ibridi – dalla ricomparsa del separatismo nell’isola di Mainita alla sollevazione antigovernativa (curiosamente a tinte sinofobiche) di novembre 2021.

La linea Trump, per quanto dura, non aveva dato i frutti sperati. Il governo Sogavare era riuscito a sedare le proteste in tempi rapidi, soffocandole prima dell’evoluzione in insurrezione, e di lì a breve, il 19.4.22, avrebbe alzato la posta in palio siglando un accordo di sicurezza globale con Pechino. Un accordo dal contenuto ambiguo abbastanza da spianare la strada allo stabilimento di una base (militare?) cinese nell’arcipelago. Un accordo da sabotare, e/o un arcipelago da riportare nell’alveo dell’anglosfera, nel nome della strategia della catena di isole.



Il futuro della catena di isole passa da Honiara

Perché le Salomone siano una delle terre di confine al centro dello scontro egemonico del Duemila, la competizione sistemica tra Cina e Stati Uniti, è anche e soprattutto per una questione di geografia. O meglio: di geostrategia.

La aspirazioni marittime della Cina sono inibite, sin dal 1949, da una strategia di accerchiamento contenitivo rispondente al nome di catena di isole, equivalente estremorientale e in funzione anticinese del più celebre containment antisovietico, da cui dipende la primazia degli Stati Uniti nell’Indo-Pacifico. Isole come Taiwan, arcipelaghi come Giappone e Filippine, stretti come Malacca, che, insieme, costringono la Cina in una dimensione tellurica, le impediscono di ergersi a potenza navale e funzionerebbero, in caso di guerra, come una morsa letale.

Il Primo ministro delle Isole Salomone Manasseh Sogavare a colloquio con Xi Jinping nel 2019. Foto: EPA/Parker Song / POOL.

Tutto ciò che serve per capire l’importanza delle Salomone è un mappamondo. Incuneate alla perfezione tra arcipelago indonesiano, Oceania bianca e Triangolo polinesiano, le Salomone sono un trampolino di lancio tridirezionale ed anche un avamposto in grado di bucare le prime due cerchie di isole.

La Cina non può sfondare la prima cerchia di isole, di cui Taiwan è la colonna portante, ma può malleare le acque che la avvolgono – la logica delle isole artificiali nel Mar Cinese Meridionale – e può cercare di aggirarla inserendosi nelle retroguardie poste alle sue estremità – da Timor Est alle Salomone.

Gli Stati Uniti non possono né vogliono fermare la diplomazia periferica della Cina manu militari, ché non è il 1942, ma hanno una vasta gamma di strumenti per ridurne l’efficacia: dal dollaro alle operazioni ibride. Non stupirebbe se scoppiasse proprio qui, nelle retrovie della catena di isole, la prima guerra per procura tra Washington e Pechino. Giacché è tra Timor Est e Salomone, più che tra Giappone e Filippine, che si decidono e che si decideranno le future rotte della globalizzazione e le gerarchie dell’Indo-Pacifico.

L’oro delle Salomone

Le Isole Salomone hanno una vera e propria miniera di ricchezze nel loro territorio. La prima e più evidente è stata rappresentata, storicamente, dalle foreste. Fonte di profitto, ma anche di problemi strutturali sul piano ambientale, dato che, come ha ricordato il Guardian, “le Salomone esportano annualmente una quantità di legname 19 volte superiore a quella sostenibile [e], ai tassi attuali, potrebbero esaurire tutte le loro foreste naturali entro il 2036”. Inoltre, “ci sono già prove che il disboscamento nelle Isole Salomone sta avendo un impatto sulle barriere coralline del paese, una parte vitale dell’ecosistema alimentare”.

In prospettiva, sono molte, e altre, le risorse che possono lanciare l’arcipelago oceanico nel contesto globale come “nazione contesa”. La prima di tutte è l’oro a cui, in un certo senso, questo stato deve il nome. Il navigatore Alvaro de Mendana, partito dal Perù spagnolo nel 1567, l’anno successivo visitò le isole delle Salomone, tra cui Malaita, Guadalcanal, Makira e Choiseul, e, trovandovi tracce d’oro, pensò di aver trovato le mitiche miniere che rifornivano il tesoro di Re Salomone – e proprio a lui, al sovrano biblico, dedicò l’arcipelago.

A Guadalcanal, isola-perno dell’arcipelago, l’oro viene estratto su scala industriale nella miniera di Gold Ridge sin dal 1998. Dopo un breve periodo di chiusura, causato da tensioni sociopolitiche scatenate dalla cattiva redistribuzione dei profitti tra proprietari e popolazione locale, il giacimento è stato riaperto ed è stato oggetto di vari passaggi di proprietà, sempre riguardanti società australiane, vivendo una stagione di sfruttamento intensivo durata fino al 2015. Nel 2019, dopo una sequela di negoziati e sorprese, la svolta: il rilevamento da parte della China Railway Group Limited, avvenuto alla modica cifra di quasi un miliardo di dollari e valevole fino al 2034.

Metalli preziosi e terre rare

Un’ulteriore fonte di sviluppo potrebbe essere il nichel, elemento che con la guerra in Ucraina è entrato nel novero delle risorse minerarie strategiche soggette a forti oscillazioni di prezzo. La competizione tra Occidente e Cina, in quest’ottica, vede gli Stati Uniti sostenuti dall’Australia con aziende come Pacific Nickel, che opera nelle Salomone con un investimento nella miniera Kolosori – dove, si stima, potrebbero trovarsi 111mila tonnellate di nichel su un volume di terreno di 7,08 milioni di tonnellate.

Nel 2019, infine, un articolo accademico apparso su Chemical Geology ha segnalato la possibile presenza di terre rare nell’arcipelago salomonese. Spiccherebbero, in particolare, riserve di lantanio, fondamentale per rafforzare gli acciai speciali per le tecnologie di transizione energetica, di cerio, chiave per le leghe di alluminio, e di europio, materiale di cui è allo studio un possibile impiego nei reattori nucleari per via della sua capacità di assorbire i neutroni.

In quest’ottica, quella delle terre rare – il petrolio del XXI secolo –, la sfida di sistema per le risorse può aggiungere ulteriore valore alla rilevanza geopolitica delle Isole Salomone. Periferia calda del mondo che è in primo luogo valorizzata dal suo ruolo geostrategico, linea di faglia della Guerra Fredda 2.0., e dove in secondo luogo si trovano anche dei pretesti economici che giustificano l’ennesimo braccio di ferro tra Pechino e Washington.

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