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L'attacco ad Isfahan svela il grande gioco per il controllo dell'Iraq

La luce delle esplosioni sopra i laboratori militari di Isfahan ha segnalato un nuovo episodio della guerra ombra tra Israele e Iran, ma non solo. L’attacco alla base di ricerca missilistica e nucleare iraniana ha fatto luce anche sul precario equilibrio con cui l’Iraq si muove tra Teheran e Washington.

A pochi giorni dal raid, Nournews, una fonte mediatica strettamente associata al Supremo consiglio per la sicurezza nazionale iraniano ha commentato il “coinvolgimento curdo controrivoluzionario” nell’offensiva ai laboratori di Isfahan. Secondo le fonti, i tre Uav (Unmanned Aerial Vehicles) volati sul sito di Isfahan – zona che ospita l’impianto di arricchimento nucleare di Natanz – sono stati “importati nel Paese da gruppi controrivoluzionari” stanziati nel Kurdistan iracheno, per poi essere “assemblati in un laboratorio ben equipaggiato” in Iran.

I retroscena nel Kurdistan iracheno

Secondo Nournews già nel luglio scorso l’intelligence di Teheran aveva sventato un attacco organizzato da un gruppo di oppositori curdi “addestrati dai servizi segreti sionisti” che pianificava un’esplosione nei pressi degli stabilimenti industriali di Isfahan. Anche in quell’occasione, gli agenti israeliani avrebbero puntellato l’operazione di sabotaggio collaborando con elementi vicini a Erbil. Da decenni infatti la regione autonoma del Kurdistan iracheno ospita numerosi campi e basi arretrate gestite da gruppi ribelli curdi iraniani, in passato accusati da Teheran di servire interessi occidentali e di facilitare o permettere tacitamente operazioni israeliane contro l’Iran.

In aggiunta a ciò, tra ottobre e novembre scorso Teheran aveva sferrato diversi attacchi con droni e missili ad ovest del confine colpendo duramente il Partito Komala dei lavoratori curdi iraniani e il Partito Democratico del Kurdistan Iraniano nel Nord Iraq, colpevoli di aver fornito supporto a chi protesta contro il regime in Iran. Per Teheran esisterebbe infatti una connessione tra i gruppi curdi iraniani e le sollevazioni che hanno infiammato il 2022: va ricordato in particolare che Mahsa Amini, la giovane donna iraniana morta in custodia della polizia morale dell’IRGC, era di etnia curda.

I bliz in terra irachena da parte delle forze iraniane hanno spinto il neo-premier al-Sudani aveva condannato gli attacchi come violazione della sovranità dell’Iraq, ma la critica degli ufficiali iraniani era stata dura: le forze al-Quds avevano minacciato un’invasione via terra nel caso in cui Baghdad avesse fallito nel disarmo dei gruppi di opposizione iraniani nella regione del Kurdistan. Il dubbio che ora l’attacco ad Isfahan — mai rivendicato da Israele ma con ogni probabilità orchestrato dal Mossad — sia stato effettuato con la collaborazione di agenti nel Kurdistan iracheno complica ulteriormente il rapporto tra Teheran e Baghdad. I leader iraniani appaiono sempre più frustrati dal fatto che nonostante le fazioni filo-iraniane formino la colonna portante del governo di al-Sudani questo si comporti in maniera sempre più indipendente da loro, e al contrario accomodi più facilmente gli interessi di Washington. Questo sbilanciamento crea i presupposti per una maggiore libertà d’azione per gli ayatollah nel Nord iracheno. Si può immaginare che, in caso di nuovi attacchi israeliani in Iran, Teheran possa agire in maniera più attiva contro gli oppositori curdi, e potrebbe prendersi la libertà di farlo senza consultare Baghdad.

La crescente distanza da Teheran

Dalla fine del 2022 infatti, Al Sudani si è svincolato dal governo degli ayatollah in maniera direttamente proporzionale al crescere dell’isolamento internazionale di Teheran e delle sanzioni imposte da Stati Uniti e Unione Europea per la sanguinosa repressione delle rivolte e per il sostegno materiale allo sforzo bellico russo in Ucraina. Quelle politiche interne ed estere hanno ulteriormente offuscato l’immagine dell’Iran agli occhi degli iracheni stessi, già largamente convinti che da decenni i leader persiani fomentino il settarismo in Iraq per sfruttarne l’economia e le risorse a proprio favore. Così a metà gennaio Mohammed Shia Al Sudani ha apertamente rifiutato di fissare una scadenza per la presenza militare americana in Iraq (attualmente intorno alle 2000 unità) in nome della necessità di combattere miliziani ISIS provenienti dalla Siria.

In un’intervista al Wall Street Journal, il premier ha detto che la lotta al fondamentalismo islamico “ha bisogno di ancora un po’ di tempo”. Ha poi continuato dicendo di voler mantenere la stessa vicinanza con l’Arabia Saudita e degli altri produttori del Golfo. La “risposta” alle parole del premier non si è fatta attendere, e a pochi giorni dai commenti a Wsj la “Fazione internazionale di resistenza”, milizia sciita collegata alle forze al-Quds, ha rivendicato un attacco dinamitardo ad un convoglio americano poco distante da Baghdad.

Il nuovo favore per gli Usa

L’interesse del governo di Baghdad per un riavvicinamento a Washington deriva anche dal fatto che l’Iraq stesso, la sua popolazione e la sua economia, risentono gravemente degli effetti secondari delle sanzioni applicate all’Iran. Il giro di vite imposto da Washington sull’economia iraniana passa anche per le banche irachene. La Federal Reserve Bank di New York, in cui sono depositati i proventi statali del petrolio iracheno, ha dettato nuovi requisiti di trasparenza che hanno costretto la Banca centrale irachena a proscrivere diverse banche locali, e questo ha ridotto drasticamente le transazioni in dollari e indebolito il dinaro iracheno.

Le nuove misure della Federal Reserve volevano infatti restringere il flusso di dollari americani nel sistema bancario iracheno e quindi nelle reti informali di scambio che permettevano il passaggio di denaro alle istituzioni iraniane sanzionate. Sulla scorta di queste misure, il governo di Baghdad ha anche reindirizzato l’azione di un’importante unità antiterrorismo dedicandola alla lotta agli agenti di cambio di valuta estera che fornivano dollari americani all’Iran.

L’adesione a queste misure può costare caro al governo di Al Sudani perché ha peggiorato la situazione finanziaria dei commercianti e della classe medio-alta. Al Sudani si aspetta probabilmente che sul lungo periodo queste gli assicureranno il favore di Washington, ma nel frattempo si trova davanti l’arduo compito di bilanciare i propri interessi nella relazione con due alleati che si escludono vicendevolmente. Il rafforzamento dell’asse Washington-Baghdad potrebbe fungere da facilitatore per l’azione americana nella regione, soprattutto con la rinnovata necessità di risorse petrolifere a livello globale, e dimostrerebbe la potenzialità della soluzione diplomatica per i numerosi conflitti regionali.

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