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La sfida tra Stati Uniti e Cina nella transizione energetica

Con un colpo di scena politico dell’estate 2022, il presidente Joe Biden mette al sicuro uno dei successi più rilevanti della sua presidenza, preludio della tenuta nelle elezioni di metà mandato. Si tratta dell’accordo con il senatore democratico “ribelle” Joe Manchin per l’approvazione di una importante legge, l’Inflation Reduction Act. Il lettore che non conosce la legge nel dettaglio potrebbe intuire che si tratti di un provvedimento volto, appunto, a ridurre l’inflazione, ma il tema della legge è un altro: la competizione tra Cina e Stati Uniti nella transizione energetica. Per capire la sua razionalità, dobbiamo partire dalla sua premessa, da un movimento poco visibile ma concreto negli ultimi vent’anni: l’ascesa cinese nelle filiere industriali che oggi identifichiamo, in senso ampio, con le energie pulite. 

Sempre nell’estate 2022, nel rapporto sulla supply chain globale dell’industria fotovoltaica, l’International Energy Agency descrive la situazione con una sintesi efficace: “Il mondo si affiderà quasi completamente alla Cina per la fornitura degli elementi chiave per la produzione di pannelli solari fino al 2025. Sulla base della capacità di produzione in costruzione, la quota cinese della produzione globale di polisilicio, barre e wafer raggiungerà presto quasi il 95%. Oggi, la provincia cinese dello Xinjiang rappresenta il 40% della produzione mondiale di polisilicio”. Ciò evidenzia un elemento rilevante dello sviluppo cinese: la competitività su elementi che servono a tutti gli altri attori per realizzare ambiziosi piani verdi.

Gli europei, per esempio, hanno letteralmente pagato con i loro sussidi lo sviluppo industriale cinese, perché i loro piani per anni non hanno posto obiettivi di produzione tecnologica autonoma. E i provvedimenti per contrastare la politica industriale cinese, per esempio attraverso dispute commerciali, sono sempre giunti in ritardo rispetto la realtà economica. La filiera fotovoltaica, più che da grandi discontinuità tecnologiche, è stata caratterizzata dalla riduzione dei prezzi, e nella competitività cinese pesa anche la scala. La capacità della Repubblica Popolare si è ripetuta anche, con notevoli risultati, anche in filiere più complesse, come quella della mobilità elettrica. 

In quest’ambito, da un lato, la Repubblica Popolare ha fatto leva sulla propria forza di mercato, come in altri settori: i suoi consumatori e la crescita della classe media ne hanno fatto, in questo secolo, un mercato automobilistico sempre più rilevante, in grado di attirare gli investitori esteri, anche in luoghi di speciale interesse politico per il governo cinese, incluso lo Xinjiang. Dall’altro lato, Pechino non è riuscita in passato a ridurre in modo significativo il divario con altre potenze automobilistiche, per ciò che riguarda i sistemi tradizionali. Ciò ha giustificato un ampio e ambizioso investimento sulla filiera elettrica, con un cruciale presupposto: la comprensione della struttura “materiale” della transizione. 

Se consideriamo il litio, il cobalto e le altre materie prime utili per la transizione energetica, la Cina ha quindi agito su più livelli. Primo passaggio: le aziende cinesi, anche attraverso le banche di sviluppo, si sono assicurate capacità nelle principali potenze minerarie, dall’Australia al Sud America. Al contrario di quanto comunemente si crede, non è la disponibilità interna di materie prime a generare il vantaggio cinese. Secondo passaggio: l’investimento cruciale cinese è stato sulla tecnologia e la capacità in termini di raffinazione e trattamento.

Questo è il passaggio che deve avvenire in patria, anche per accompagnare una filiera chimica su cui la Cina ha scalato le posizioni internazionali, sia per la costruzione del “leviatano chimico” Sinochem Holdings che per la presenza in numerose nicchie. Terzo passaggio: l’industrializzazione su vasta scala di tecnologie sviluppate da altri attori asiatici (come le batterie a ioni di litio) e la sperimentazione di alcune politiche, per esempio relative all’adozione di auto elettriche, su scala locale, secondo un classico meccanismo cinese di “mercato delle politiche”, in cui i vari governi locali competono anche attraverso gli incentivi per la creazione dei migliori ecosistemi innovativi.

Il successo di aziende come Byd (presente sia nella filiera delle batterie che nell’auto elettrica) e Catl (leader mondiale delle batterie che ha superato i maestri coreani e giapponesi) testimonia la forza della posizione cinese. La Cina non ha intenzione di fermarsi. Anche in un’epoca di rallentamento dell’economia, continuerà a fare leva sulla forza del suo mercato, che coinvolge la stessa Tesla. Nel 2022, la maggior parte delle automobili dell’azienda di Elon Musk sono state prodotte a Shanghai.

Nel prossimo futuro, la Cina investirà in ricerca e sviluppo su nuove tecnologie, per non essere sorpresa dal cambiamento. Per esempio, l’ex ministro della scienza e tecnologia, Wan Gang, che anche per la sua esperienza tecnica in Germania è stato fondamentale per la costruzione e l’attuazione della strategia cinese, ha spesso sottolineato l’importanza di investire nell’idrogeno.  

Ora, se la situazione è quella fotografata dalle società come Benchmark Mineral Intelligence, col dominio cinese nella produzione di catodi, anodi e batterie, quali sono le prospettive? Non dobbiamo dimenticare che un’eredità della strategia cinese è anche la competitività delle aziende automobilistiche, che potranno inondare di vetture elettriche a prezzi molto ridotti i principali mercati, a partire da quelli europei. Siamo quindi davanti a un finale di partita, con l’inevitabile vittoria cinese? 

L’Inflation Reduction Act, da cui siamo partiti, si inserisce qui. Rappresenta un esempio dei fenomeni che nei miei libri ho definito di capitalismo politico e sanzionismo, per leggere la stretta relazione tra economia, sicurezza nazionale e tecnologia che caratterizza la nostra epoca.

La legge, affinché le aziende e i consumatori possano avere i generosi sussidi del governo degli Stati Uniti, impone una soglia di “contenuto locale”, con un riflesso molto ambizioso: la ricollocazione delle filiere, per estrazione, trattamento e produzione, sul suolo statunitense, nordamericano o di Paesi con cui gli Stati Uniti hanno un trattato di libero commercio. Obiettivo, inserito chiaramente in ottica anticinese ma che ha riflessi anche sugli europei, visto che l’UE non ha un simile trattato, e che ha portato proteste dei principali leader, a partire da Macron. Quale sarà il futuro della competizione innescata dall’Inflation Reduction Act, dopo la “scintilla” di lungo periodo cinese che abbiamo descritto? Una corsa globale ai sussidi? La creazione di alleanze strutturate sulla produzione? Diversi scenari sono possibili, ma la competizione sulla transizione energetica resterà tra noi. E ci ricorderà la centralità della chimica e la fine delle illusioni di una transizione senza costi.  Per esistere, bisogna estrarre, costruire, trasformare.  

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