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La scommessa di Putin e i rischi della Nato: a chi conviene la guerra in Ucraina

Il 24 febbraio scorso è scoccato il primo anniversario della guerra in Ucraina. Questo conflitto armato ha vissuto e sta vivendo diverse fasi. Inizialmente a manovrare le offensive era l’esercito di Mosca, che ha provato senza successo a colpire in più punti con l’obiettivo di prendere Kiev per “denazificare” e “demilitarizzare” il regime. Dopo un mese di resistenza, gli ucraini hanno potuto tirare un sospiro di sollievo quando i soldati di Putin hanno abbandonato la regione della capitale, ma il potenziale offensivo russo non si è esaurito: a maggio è stata presa Mariupol, mentre a giugno è caduta Severodonetsk.

A partire dall’estate, l’Ucraina è passata all’attacco a Kharkiv e a Izyum, mentre in autunno le truppe di Zelensky sono rientrate nella città di Kherson. Da allora, la guerra è entrata in una fase di attrito. I due eserciti stanno combattendo nelle trincee del Donbass, in particolare nell’area intorno a Bakhmut, diventata un cumulo di macerie dopo l’assedio dei mercenari Wagner.

Cosa succederà nei prossimi mesi, se non addirittura anni? Se lo chiedono tutti e la domanda è stata posta anche al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, intervistato da Bruno Vespa un mese fa. “Quanto durerà la guerra? Non troppo a lungo, credo”, ha risposto Zelensky. “Potremmo immaginare per questa estate“, assicura. “In realtà dipende dalle munizioni, dall’essere pronti a usarle, dipende dall’artiglieria a disposizione, dai carri armati, dipende da come affronteremo l’inverno, con i black-out elettrici, i bombardamenti aerei, la nostra rete di energia”.

La posizione della Nato

Insomma, il capo di Stato ucraino ha ribadito ancora una volta che senza il sostegno militare dell’Occidente il suo Paese non potrà vincere questa guerra. L’istinto porterebbe a immaginare quella in Ucraina come una guerra per procura combattuta da un attore terzo per conto degli interessi della Nato. È effettivamente così? Non è un mistero che il governo degli Stati Uniti voglia logorare la leadership politica russa. Le sanzioni imposte finora vanno lette in questo senso. Che la guerra in Ucraina sia però una proxy war è una falsità: gli Usa non stanno motivando Kiev a combattere in eterno, ma anzi accelerano gli aiuti per avvicinarsi a una svolta strategica. La volontà di piegare il Cremlino non corrisponde in automatico a quella di prolungare sine die il conflitto e gli aiuti non sono un espediente per aggirare il folle intervento diretto che renderebbe la Nato co-belligerante. E non è neanche detto che la Casa Bianca abbia gli stessi piani del governo ucraino. Lo spiegano bene Eli Berman e David A. Lake nel libro Proxy Wars.

“Raramente, se non mai, i proxy hanno interessi identici a quelli del mandante, anche se agli Stati Uniti piace pensare di agire per il benessere generale secondo i valori universalmente riconosciuti di democrazia, libertà e diritti umani”, scrivono i due. “Gli agenti locali devono spesso affrontare sfide politiche interne molto diverse da quelle del mandante. I leader locali devono essere attenti alla loro sopravvivenza politica di fronte ad avversari elettorali o estremisti disposti a usare la violenza per rovesciare il regime”.

La scommessa di Putin

Trasformare la guerra in Ucraina in una proxy war è invece l’obiettivo della Russia. Putin ha un vantaggio che i Paesi Nato e gli Usa non hanno, e cioè si può permettere di trascinare il conflitto per quanto tempo vuole senza badare a cambiamenti di umore nell’opinione pubblica o alle scadenze elettorali, a differenza delle democrazie occidentali.

Un primo tentativo di testare il terreno si è registrato l’anno scorso alle elezioni presidenziali in Francia, dove si sono scontrate due posizioni opposte sulla guerra in Ucraina e alla fine ha prevalso la linea dura di Macron. Anche in Italia, nonostante i sondaggi continuino a mostrare che i cittadini vogliono che la guerra termini il prima possibile, a settembre ha vinto uno dei partiti più pro-Kiev d’Europa, mentre nei prossimi mesi toccherà a Polonia e Turchia, dove però neppure uno scossone alle urne riuscirebbe a stravolgere la posizione storica di Varsavia e di Ankara sulla Russia.

Cristallizzare la guerra è allora la scommessa di Putin. Falliti i piani A (vittoria totale) e B (vittoria ridimensionata ma con negoziato a favore), ora siamo al piano C, che nella mente di Putin potrebbe tradursi in un ritorno alla strategia iniziale: sfinire Kiev per costringere Zelensky e i suoi alleati a cedere, accettando sempre più concessioni, a partire dallo status della Crimea. Creare una nuova Siria in Europa era uno degli scenari previsti nei primi mesi di guerra da Foreign Policy. Ora sembrerebbe questa l’opzione caldeggiata dal Cremlino. Bombardamenti, devastazione, violenze sui civili: questo è il prezzo da pagare se si vuole sfidare la nostalgia imperiale dello zar, in Siria come in Ucraina. Ma Kiev non è Damasco e questo l’Occidente l’ha colto, perché l’alleato in guerra non è un insorto da foraggiare alla cieca: stavolta il supporto è indifferibile.

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