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La produzione bellica Usa è insufficiente a sostenere un ritmo di guerra

L’amministrazione Biden ha proposto, per il 2024, un aumento del bilancio per la Difesa pari a circa il 3% (25 miliardi) che porterà la spesa complessiva a 842 miliardi di dollari.

Se verrà mantenuta questa tendenza, il risultato sarà il più alto budget militare dalla fine della Seconda guerra mondiale, molto più alto rispetto ai picchi raggiunti durante la guerra di Corea, quella del Vietnam o al culmine della Guerra fredda. “Il bilancio dà la priorità alle risorse per gli investimenti critici che consentono al Dipartimento (della Difesa ndr) di continuare l’attuazione della Strategia di Difesa Nazionale, incluso il raggiungimento del giusto mix di capacità per difendersi dalle minacce attuali e future”, ha affermato in una nota il Segretario alla Difesa Lloyd Austin.

Oltre alla Cina, che l’amministrazione statunitense definisce come “sfida incalzante”, la richiesta di finanziamenti prevede anche una serie di misure per contrastare la Russia attraverso il sostegno militare all’Ucraina. La richiesta della Casa Bianca si sofferma principalmente sull’acquisizione di tecnologie e sullo sviluppo di settori chiave della base industriale statunitense come la microelettronica, la costruzione di sottomarini e la produzione di munizioni. Proprio queste ultime hanno rivelato una lacuna strutturale dell’industria bellica statunitense e, più in generale, di quella occidentale.



Nel documento ufficiale, redatto in collaborazione col Pentagono, si afferma che le nuove spese serviranno a modernizzare ed espandere la capacità produttiva nazionale per garantire che l’esercito possa soddisfare le richieste di munizioni che sono vertiginosamente aumentate da quando è iniziato il conflitto in Ucraina, per via del supporto militare statunitense a Kiev.

Si calcola che, all’incirca, siano state fornite scorte di armi per un valore di oltre 32 miliardi di dollari, tra cui più di un milione di proiettili da 155 millimetri, 1600 missili spalleggiabili antiaerei “Stinger”, 8500 missili guidati anticarro “Javelin”, 1800 droni “Phoenix Ghost” e 38 M-142 Himars.

Come detto, il contrasto alla Cina rappresenta il dossier principale per la Casa Bianca, infatti nella proposta di bilancio sono stati stanziati 9,1 miliardi di dollari per la Indo-Pacific Deterrence Initiative, ma il conflitto in Ucraina ha determinato una spesa imprevista che ha portato a 6 miliardi i fondi destinati al contrasto alla Russia attraverso il sostegno a Kiev.

Soldato americano con un missile anticarro Javelin Foto: Epa/Us Army/Sgt. Liane Hatch

Questo doppio onere finanziario sta evidenziando tutta la fragilità del sistema industriale statunitense: uno studio del Center for Strategic and International Studies (Csis) mostra che l’attuale produzione di armamenti Usa potrebbe essere insufficiente per evitare l’esaurimento delle scorte di articoli chiave che Washington sta fornendo a Kiev. Inoltre, anche a tassi di produzione accelerati, è probabile che ci vorranno almeno cinque anni per recuperare il numero in inventario di missili “Javelin”, “Stinger” e di altri armamenti inviati. Il Csis lancia anche un altro allarme: l’industria della difesa degli Stati Uniti non è adeguatamente preparata per il contesto di sicurezza internazionale che esiste ora, e in caso di un grande conflitto regionale, come una guerra con la Cina nello Stretto di Taiwan, l’uso di munizioni da parte Usa supererebbe probabilmente le attuali scorte. Secondo i risultati di una serie di giochi di guerra effettuati dall’istituto statunitense, probabilmente alcune munizioni, come quelle a lungo raggio e di precisione, si esaurirebbero in meno di una settimana in un conflitto del genere.

La guerra in Ucraina ha messo quindi in luce gravi carenze nell’industria bellica degli Stati Uniti e serve come promemoria del fatto che un conflitto prolungato rischia di essere una guerra industriale che richiede un sistema in grado di produrre abbastanza munizioni e armi per sostituire quelle esaurite.

Un dato è emblematico, e riguarda proprio i proiettili per l’artiglieria da 155 millimetri: in Ucraina ne sono stati sparati, in media 7700 al giorno – ora si stima che, con l’esaurimento delle scorte, il numero si aggiri intorno ai 5mila – mentre la loro produzione mensile statunitense è di 14mila colpi.

Il generale Mark Milley, capo di Stato maggiore della Difesa Usa, ha previsto che la rapida diminuzione delle munizioni disponibili nei magazzini potrebbe richiedere un ulteriore aumento della spesa del Pentagono oltre quanto già previsto.

In Europa, come sappiamo, i problemi sono altrettanto gravi. Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha avvertito a febbraio che la tempistica di consegna per le armi di grosso calibro è più che triplicata, il che significa che quello che viene ordinato ora non verrà consegnato prima di due anni. In Germania, che ha varato un piano per la ristrutturazione delle sue forze armate che stenta ancora a essere messo in atto, si ritiene che la scorta di munizioni sia sufficiente per due giorni di combattimenti, mentre in una simulazione effettuata dai britannici, le azioni belliche sono durate otto giorni.

Per affrontare questi problemi, i leader dell’Unione Europea stanno esplorando modi per accelerare la produzione, possibilmente utilizzando accordi di acquisto anticipato sul modello di quanto accaduto durante lo sviluppo dei vaccini contro il coronavirus, ma come abbiamo più volte anticipato, la situazione non è affatto promettente.

In Europa, infatti, si fatica a stanziare fondi adeguati – eccezion fatta per alcune nazioni come la Polonia o i Baltici – e di conseguenza gli ordini per l’industria arrivano con lentezza. Bisogna poi considerare che, sino a prima del conflitto, le linee di produzione venivano solitamente chiuse una volta evaso l’ordine, e proprio perché non esiste la necessità di avere un’economia di guerra, l’industria della Difesa si concentra sull’innovazione (anche perché più remunerativa per ordini medio/bassi).

Dall’altra parte della barricata, come sappiamo, non stanno meglio: la Russia a novembre ha interrotto il suo programma di sviluppo di nuovi armamenti per il quale negli ultimi 10 anni sono stati stanziati più di 20 trilioni di rubli dal bilancio federale. All’inizio di quel mese il presidente Vladimir Putin ha dato ordine di “adeguare gli standard per la fornitura delle Forze armate della Federazione russa” tenendo conto “dell’intensità di uso e usura dei beni materali” nel corso del conflitto in Ucraina e quindi portare l’approvvigionamento di armamenti “in linea con le reali esigenze” delle forze armate.

Tornando in Europa, la difficoltà di approvvigionamento – che è da considerarsi cronica – per quanto riguarda le munizioni o i sistemi d’arma, ha portato chi può spendere soldi ad affidarsi al mercato extra-europeo che garantisce, almeno in alcuni settori, pronta consegna: nel periodo 2017-2021 la Norvegia ha investito l’83% del suo budget in armamenti di fabbricazione Usa, il Regno Unito circa 77%, l’Italia il 72% e i Paesi Bassi addirittura il 95%, e scendendo in dettaglio la Polonia ha anche “fatto spesa” di armi in Corea del Sud con un’importante commessa del valore complessivo di 20 miliardi di dollari per la fornitura di 180 Mbt (Main Battle Tank) tipo K2, obici e 48 velivoli Fa-50. Non si tratta solo di soldi che hanno abbandonato il Vecchio Continente, ma anche di un duro colpo per l’expertise continentale che vede le commesse essere piazzate altrove.

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