La Cina ha ancora all’attivo una sola base militare all’estero. Si tratta di una struttura navale aperta nel 2017 a Gibuti, nel Corno d’Africa. Il gigante asiatico sta tuttavia accelerando le ricerche per individuare nuove aree strategiche sulle quali edificare ulteriori strutture.
Gli Stati Uniti, preoccupati dei possibili piani cinesi, ritengono che, dal 2018 ad oggi, Pechino si sia avvicinato ad almeno cinque Paesi e ne abbia passati in rassegna una dozzina. Il flirt con le Isole Salomone è soltanto la punta dell’iceberg, la più recente in ordine temporale. Situate nel cuore dell’Oceania, ad est della più famosa Papua Nuova Guinea, le Isole Salomone sono formate da un migliaio di isole. Messe tutte assieme, queste piccole isolette, abitate da neanche un milione di persone – poco meno di 687mila persone – coprono una superficie di circa 28mila chilometri quadrati. Ebbene, lo scorso aprile Cina e Isole Salomone hanno firmato un accordo quadro relativo alla cooperazione in materia di sicurezza.
L’intesa, che dovrebbe coprire un’ampia gamma di ambiti, tra cui sicurezza sociale, tutela della proprietà privata e aiuti umanitari, ha provocato la netta condanna da parte di Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda, secondo i quali Pechino potrebbe sfruttare la circostanza a proprio vantaggio e istituire una base militare nell’arcipelago. Il Dragone ha smentito categoricamente la notizia, ma i contenuti dell’accordo sono ancora nebulosi. Si dice infatti che la Cina potrebbe, secondo le proprie esigenze e con l’approvazione locale, inviare le proprie navi a fare scalo nelle Isole Salomone.
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Punti strategici e di interesse
Il governo cinese ha intenzione di proteggere i suoi interessi mondiali e sfidare il dominio militare americano, in primis in Asia. Pechino può già contare su una rete globale di oltre 90 porti che sono parzialmente o totalmente di proprietà o gestiti da imprese cinesi. Il punto è che infrastrutture del genere sono ottime per i rifornimenti, questioni commerciali e la riparazione delle navi in tempo di pace. La Repubblica Popolare Cinese ha tuttavia anche bisogno di strutture in cui far stazionare il personale in divisa, immagazzinare armi e attrezzature militari.
Non è un caso che negli ultimi tre anni la Cina abbia firmato un accordo segreto per l’utilizzo di una base navale in Cambogia, cercato di negoziare un proprio avamposto navale in Guinea Equatoriale e iniziato a costruire una struttura militare all’interno di un porto – gestito dai cinesi – negli Emirati Arabi Uniti (pare che i lavori per quest’ultima base si siano congelati dopo alcune pressioni statutensi su Abu Dhabi).
Da questo punto di vista, come ha sottolineato l’Economist, la sfida della Cina agli Stati Uniti assomiglia per certi versi a quella mossa a suo tempo a Washington dall’Unione Sovietica. Che, dalla metà degli anni ’60, iniziò a spingere per trovare basi all’estero così da dare alla sua marina una portata globale. Nei due decenni successivi, Mosca negoziò l’accesso alle strutture in circa 15 Paesi, tra cui Mauritius, Siria e Vietnam. Quegli accordi hanno in seguito assunto molte forme, tra intese che hanno incluso basi in piena regola, altre che hanno compreso solo riparazioni navali e altre ancora fallite.
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Basi in costruzione e possibili basi future
Il Washington Post ha acceso i riflettori sui movimenti della Cina in Cambogia. Secondo il quotidiano statunitense, Pechino starebbe costruendo una nuova base in Cambogia, a esclusivo utilizzo delle sue navi militari. La nuova installazione dovrebbe occupare la parte settentrionale della base cambogiana di Ream, sul Golfo di Thailandia.
Quella che sorgerà in Cambogia, più che base militare vera e propria, potrebbe essere definito come un hub strategico che consentirà al governo cinese di stringere i muscoli in una zona, il Mar Cinese Meridionale, contesa da Vietnam e Filippine. Non è ancora stato reso noto il contenuto dell’accordo, anche se sono uscite le prime indiscrezioni. L’esercito cinese dovrebbe usare per i prossimi 30 anni una sezione di 62 acri della base di Ream, con un rinnovo automatico ogni 10. Pechino potrà inoltre ormeggiare in loco navi da guerra, custodire armi e far alloggiare personale militare. Da un punto di vista geopolitico, l’avamposto cambogiano è una delle perle che andranno a comporre la “collana di perle” con cui la Cina intende strozzare l’India, principale rivale in Asia Centrale e nel sud est asiatico.
Spostandosi in Asia Centrale, il Tagikistan avrebbe approvato la costruzione di una nuova base militare della Cina non lontano dal confine con l’Afghanistan. Il progetto, risultato di un accordo tra il ministero dell’Interno di Dushanbe e il ministero della Pubblica sicurezza di Pechino, sarebbe stato adottato dall’Assemblea dei rappresentanti, la camera bassa del parlamento tagico.
I ricercatori del think tank Rand Corp hanno valutato 108 Paesi come siti desiderabili e idonei per future basi cinesi e realizzato un report intitolato China’s Global Basing Ambitions. Nel rapporto si legge che è “molto probabile” che la Cina possa stabilire la sua prossima struttura all’estero in Pakistan, Bangladesh, Cambogia o Myanmar.
Intanto, come anticipato, un’installazione militare cinese permanente nella Guinea Equatoriale potrebbe coronare quasi un decennio di investimenti in Africa. L’allarme arriva sempre da Washington: se fosse vero, la Cina metterebbe le mani per la prima volta una base navale sull’Atlantico.
Vale infine la pena accendere i riflettori sull’Argentina, dove il gigante asiatico starebbe lavorando dietro le quinte per ottenere da Buenos Aires il permesso di stabilire una base navale nella città di Ushuaia, nella provincia della Terra del Fuoco, che garantirebbe effettivamente al Dragone l’accesso all’Antartide.
Tra gli altri Paesi passati in rassegna da Pechino per la costruzione di una struttura militare troviamo anche Singapore, Indonesia, Sri Lanka, Tanzania, Kenya, Seychelles e Angola, senza dimenticare Namibia e Vanuatu.
La base di Gibuti
Al momento la Cina ha una sola base militare all’estero. A fine novembre 2017, il gigante asiatico e Gibuti siglarono un partenariato strategico che rappresentava, di fatto, l’adesione dello Stato africano alla Belt and Road Initiative, mastodontico progetto infrastrutturale voluto da Xi Jinping per collegare l’Asia a Europa e Africa.
A conferma dell’importanza della posta in gioco, basti pensare che Xi volò addirittura nel Gibuti per incontrare di persona l’omologo gibutiano, Ismail Omar Guelleh. Il presidente cinese promise investimenti e soldi per modernizzare il piccolo partner, in cambio dell’ingresso di quest’ultimo nella Nuova Via della Seta. In quell’occasione, la Cina ottenne il permesso per aprire una base militare in loco, tra l’altro a pochi chilometri dal distaccamento operativo degli Stati Uniti.
La base militare in Gibuti è un hub strategico per Pechino. Intanto, la vicinanza con il centro americano Camp Lemonnier, vicino all’aeroporto internazionale, consente ai cinesi di osservare le attività degli Stati Uniti in Africa. Dopo di che, la struttura offre alla Cina un punto fermo in un Continente nel quale espandere la propria influenza a discapito di Washington. La posizione geografica di Gibuti ci aiuta poi a capire perché la Cina abbia puntato così tanto su questo anonimo Stato africano. Gibuti è infatti una sorta di osservatorio speciale per controllare lo stretto di Bab-el-Mandeb, il collegamento cruciale per le navi che devono attraversare l’Oceano Indiano per entrare nel Mar Mediterraneo attraverso il Canale di Suez.
Il costo complessivo per edificarla è stato di circa 590 milioni di dollari. Ogni anno Pechino paga al governo gibutiano un affitto pari a circa 20 milioni di dollari per i prossimi 10 anni: questi, almeno, sono stati i termini del primo accordo tra le parti. L’avamposto misura 36 ettari e ospita una pista lunga 400 metri con una torre di controllo del traffico aereo in aggiunta a un molo di 450 metri che può ospitare grandi navi, comprese navi da guerra; al momento sono presenti veicoli blindati a pattugliare la zona. Completano il quadro otto hangar per elicotteri e aerei senza equipaggio Uav, ovvero droni, da usare in operazioni locali. Il proprietario della struttura è la Commissione Militare Centrale – che fa capo direttamente al Partito Comunista Cinese – anche se a operare in loco è la Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione.
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