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La corsa dell'Italia alla spesa militare: perché deve raggiungere il target Nato

Quando l’Italia raggiungerà il 2% nel rapporto tra spese militari e Pil? La domanda, mentre si avvicina il 2024 in cui nel 2014 era stata fissata la data ultima per i partner Nato per raggiungere tale rapporto, è oggi più che mai attuale.

La Difesa è un valore, non un costo

La pandemia, le crisi economiche che ne hanno fatto seguito, la tempesta energetica del 2021-2022 hanno sicuramente ritardato la marcia dei Paesi Nato per ottenere questo target. Ma lo scoppio della guerra in Ucraina ha ridato fiato all’importanza di tale traguardo. La sicurezza collettiva intesa come bene pubblico ha ripreso quota; i dividendi politici e securitari dell’avere un attivo e pronto strumento di proiezione militare sono emersi come sempre più fondamentali; le alleanze industriali e produttive che i progetti di espansione militare abilitano hanno risvolti a lungo termine, come l’accordo Gcap Italia-Giappone-Regno Unito conferma.

Insomma: la Difesa è un valore, non un costo. Lo scrivevamo tempo fa su queste colonne e lo ribadiamo ora: la spesa per la sicurezza nazionale ha un valore strategico e capire in quanto tempo Roma toccherà il target, non vincolante ma politicamente sensibile, del 2% Nato, avrà valenza sul peso dell’Italia nel campo atlantico. Paesi come Polonia e Romania da tempo fanno della corsa a livelli di spesa militare sempre più alti un asset strategico ai tavoli negoziali.

Il trend dell’Italia

Formiche ricorda che la situazione in cui si trova Roma non è una rarità nella Nato: “L’Italia rimane tra i venti Paesi, su trenta, a non aver ancora raggiunto il livello previsto in Galles. Ad oggi solo Grecia (3,9%), Stati Uniti (3,5%), Croazia (2,7%), Lettonia (2,3%), Regno Unito ed Estonia (2,2%), Polonia (2,1%), Portogallo, Turchia (2,1%) e Lituania (2,0%) spendono quanto previsto”. La crescita c’è ma va strutturata.

Nel 2014 l’Italia spendeva in Difesa l’1,14% del Pil. Nel 2022 tale quota è salita all’1,51%, poco sotto l’1,57% toccato durante lo choc produttivo pandemico del 2020-2021, ma in un trend di aumento sostanziale. Il bilancio della Difesa supera i 28,8 miliardi di euro contando, però, circa 7 miliardi di euro destinati all’Arma dei Carabinieri. Custodi di grande competenze tecniche come i Gis o diversi reparti dell’intelligence, ma non assimilabili alle tre armi di Esercito, Marina e Aviazione su cui il conto si dovrebbe basare e da alcuni anni gravati nel bilancio anche dalla Guardia Forestale.

Un’altra metodologia oltre il bilancio della Difesa

L’Osservatorio Mil3x sottolinea però che la spesa effettiva della Difesa andrebbe incrementata della quota dell’Arma dei Carabinieri destinata alle missioni (543 milioni di euro come previsione di spesa nel 2023, 7,67% del budget), del fondo del ministero dello Sviluppo Economico per i nuovi armamenti (2,1 miliardi di euro) e di quello del ministero dell’Economia e delle Finanze per le missioni.

Le spese operative dirette e indirette permettono un calcolo differente, che l’Osservatorio sottolinea: “Tenendo conto anche della spesa pensionistica militare netta a carico dell’Inps, in aggiunta alle dotazioni di fondi dei Ministeri secondo la metodologia adottata da Mil€x, si passa infatti dai 25,7 miliardi previsionali del 2022 ai 26,5 miliardi stimati per il prossimo anno” per spese di carattere strategico. Parliamo dell’1,39% del Pil che, a un tasso di crescita effettivo di 800 milioni di euro l’anno e supponendo una crescita media del Pil dell’1% nel prossimo periodo porterebbero l’Italia a raggiungere il target in più di un decennio. Vent’anni dopo, dunque, rispetto all’obiettivo sostanziale. Un target a cui il governo Meloni intende dare una svolta.

Il ministro della Difesa Guido Crosetto a una riunione interministeriale Nato nel febbraio 2023. Foto: Epa/Stephanie Lecocq.

La sfida di Meloni e Crosetto

Il ministro della Difesa Guido Crosetto è in pressing politico per far sì che i colleghi europei aprano alla misura che potrebbe cambiare la corsa dell’Italia, in una fase in cui Stati come la Polonia già pensano al 3 o al 4% di spese: lo scorporo degli investimenti in Difesa dal Patto di Stabilità europeo. Spendere in Difesa, del resto, non è sufficiente. Bisogna spendere bene. E farlo promuovendo tutta la filiera: acquisto armamenti, proiezione militare, addestramento, revisione dei mezzi, sicurezza digitale, promozione delle attività del sistema-Difesa.

Per dimezzare a cinque anni il tempo necessario l’Italia dovrebbe aumentare ogni anno le spese militari reali, secondo il calcolo Mil3x, di 1,6 miliardi di euro l’anno. E in un contesto che vede Via XX Settembre tenere i cordoni della borsa per tutti i dicasteri e diverse incombenze economiche è necessario che la crescita qualitativa si sostanzi. In quest’ottica, molto può essere dato dalla prospettiva di far crescere il bilancio della Difesa puntando su incubatori tecnologici, fondi di trasferimento di competenze, acceleratori di start-up e piani per una crescente proiezione dell’industria militare nelle catene del valore europee e atlantiche. La spesa per la Difesa deve creare sicurezza e ritorni anche per il resto del sistema-Paese. Pena il rischio di finire nel tritacarne politico e mediatico, contrapposta ad altre voci di spesa in forma strumentale. Crosetto e Meloni hanno da tempo puntato a una crescita graduale che possa essere uno stock, non un flusso.

Il 2% è una soglia politica e psicologica, per quanto importante nell’era della guerra in Ucraina. Le conseguenze dell’impiego dello strumento militare invece sono radicalmente concrete e da questo deve partire ogni discussione sulla sicurezza nazionale di Roma per oggi e domani.

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