Immaginate una nazione oppressa da una pedante cappa di manierismi da legulei e vuote cerimonie, affamata da un fisco predatorio, piegata da una persistente crisi, minata dall’epidemia e costretta a convivere con una pantomima di giustizia asservita a un’oscura manomorta che regge i fili dal retro d’un lontano proscenio.
No (malpensanti!) non sto parlando dell’Italia dell’ultimo decennio, ma dell’Islanda asservita alla Danimarca in un momento della storia in cui un re bigamo (forse Federico IV) impone ai suoi già vessati sudditi di fornire alla Corona tutto il bronzo possibile per ricostruire Copenaghen dopo una guerra.
Una sordida topaia
Neppure la campana dell’Alþingi, il cui suono richiamava una volta l’anno tutti gli islandesi nella valle di Þingvellir lungo le rive dell’Öxará perché vi venisse amministrata pubblicamente la giustizia, sfugge alla furia della regia patente. Da questo trauma, che oltraggia il popolo nel profondo della sua identità plasmata in secoli di servaggio e calamità, hanno inizio le vicende de “La Campana d’Islanda” (Iperborea), romanzo anacronisticamente storico di Halldór Laxness.
Pur ambientando il suo testo nel periodo più miserabile della temperie dell’Isola, luogo che lo stesso autore descrive continuamente (senza mai cadere nel macabro o nel grottesco, ma con soave compiacimento antifrastico) come una sconfinata, puzzolente, tubercolotica, sordida topaia, Laxness non intende piangere il destino della sua gente componendo un’opera impregnata di stantio patriottismo.
Piuttosto, utilizza il pretesto del predatorio imperialismo danese per incastonare nella Storia le vite di tre protagonisti le cui vicende incontrano la Vicenda senza, però, mai risolversi in essa. Tre epifanie casuali che s’arrabattano per imporsi sul Tempo e sugli Altri, nel tentativo di risolvere tutto a loro favore (perché, lo si sa, quando arrivano i barbari ognuno si salva come può): insomma, tre anti-eroi, gettati per caso nel fluire dell’essere che, in realtà, siamo anche noi.
Il Contadino
C’è Jón Hreggviðsson, villico ubriacone che, prima per il furto d’una corda (reato punito alla stregua d’un omicidio), poi per aver deriso l’appetito sessuale del re, infine per un omicidio mai commesso, passa sotto gli scellerati ingranaggi d’una giustizia per miserabili, amministrata da obliqui funzionari privi del benché minimo senso del bene e del male, e che si limitano a mettere ai ceppi chiunque non sia in linea con la politica dei lontani dominatori.
La rocambolesca fuga di questo balordo zotico, la notte precedente la decapitazione comminatagli da un giudice biecamente ego-centrato, sullo sfondo d’una pestilenza che falcidia l’Islanda al pari della carestia, è la metafora dell’uomo moderno che, affamato di realizzazione e sicurezza cerca d’emergere da sé e dai casi dell’esistenza.
E per essere appieno ciò che vorrebbe, l’uomo d’oggi, come Jón, è spinto a lasciare le sue certezze, gettarsi all’avventura, accettare nuove umiliazioni (facendosi concavo e convesso) pur di fuggire dalle antiche, per poi capire che ciò che aveva lasciato, in effetti, era proprio ciò che stava cercando.
La Dama
E c’è Snæfríður, la più bella d’Islanda, sogno d’ogni maschio in quella suppurata terra dimentica da Dio. Donna potente, ella non è figlia (pur essendolo, dell’incompetente magistrato che condanna Jón), né moglie: lei è Madamigella. La sua volontà nobilita, modifica i voleri, cambia l’ingiustizia (mascherata, come sempre, dal suo contrario) in qualcosa d’ancor più subdolamente fariseo.
Eppure, dietro il viso di ghiaccio e l’altero sorriso, c’è il dolore di viver un amore insano che divora, consuma e chiede continui sacrifici di sangue. Un sentimento presso la cui ara Madamigella sacrifica tutto e, fondamentalmente, tutti. Vinta da un desiderio che crede d’aver creato da sé, chiusa nel suo solipsismo, Madamigella è disposta a qualunque cosa, anche inaudita, pur d’ottenere ciò che desidera (fraintendendo avere e possedere) salvo poi, compreso il fallimento, dedicarsi con voluttuoso godimento alla cerca della vendetta.
Il Dottore
Infine, c’è Arnas Arnæus: il dottissimo, l’islandese che ce l’ha fatta, che ha sposato la ricca nonna di turno e che, coi soldi di lei, abita nel centro di Copenaghen. Arnas è uomo che, se si annoia, va a cena dal re ma, vergognandosi delle sue origini, s’impegna a cercare manoscritti d’antiche saghe islandesi, canto silenzioso della gloria del suo popolo, per regalare alla nuova Patria, la Danimarca che piace alla gente che piace, una biblioteca di prim’ordine, forse a scusarsi del fatto stesso d’esistere.
Quanta gente vi viene in mente, leggendo questa descrizione? Quanti campagnoli che regalerebbero l’anima a Satana pur di acquisire l’accento meneghino, e perder la loro cadenza, vi affiorano al pensiero? E il fatto che ora, per entrare nel giro giusto, offrano apericene (o sé stessi…) invece di libri, in fondo, non è che un mero caso.
Ritratto della contemporaneità
Ovunque ci giriamo troviamo qualcuno che, pur di contare qualcosa in un mondo che non è il suo, recide le sue radici, avvolgendosi di venali orpelli: ma gli alberi di Natale, pur riccamente addobbati, son senza radici e, perciò, muoiono presto, Arnas lo dimostra.
Il romanzo di Laxness, scritto nel 1943 e ambientato tre secoli prima, è un epico e acuto ritratto della contemporaneità: un libro che parla di noi con noi, che prende per mano le nostre nostre miserie e le mette in scena, con la studiata intenzione d’innalzare il popolo islandese (e i suoi tre donchisciotteschi rappresentanti) a metafora d’ogni terra che, indipendentemente dalla Storia e dalla propaganda era, e resterà usque ad consummationen sæculi, abitata da umani mossi da desideri semplici e aspirazioni meschine.
E forse, nello specchiarci nel Contadino, nella Dama e nel Dottore, avremo anche noi modo di riflettere, in una sorta di catarsi artistica veicolata dal genio di Laxness, incomprensibilmente dimenticato Premio Nobel per la Letteratura.