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Iran, l'esecuzione di Ali Reza Akbari è il punto di non ritorno?

La morte per impiccagione di Ali Reza Akbari, viceministro della Difesa iraniano dal 2003 al 2008, è il possibile punto di non ritorno per il regime degli Ayatollah. Sino ad ora nei mesi di proteste dopo la morte di Masha Amini per mano della Polizia iraniana la repressione si era incardinata contro i giovani manifestanti, uccisi per le strade o impiccati dopo processi-lampo, dando l’idea di un durissimo e brutale regolamento di conti per le proteste.

Adesso, informava qualche giorno fa una fonte interna all’Iran, “le proteste studentesche e giovanili non ci sono quasi più, ma il governo sta prendendo la palla al balzo per eliminare gli oppositori” che da tempo sono ritenuti scomodi e per “aumentare le limitazioni e la repressione”. Scenario confermato pienamente dall’esecuzione di Akbari, 52enne ex alto funzionario e viceministro della Difesa di Teheran, storicamente vicino all’ex omologo Ali Shamkhani, oggi segretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale che risponde direttamente all’Ayatollah Ali Khamenei e al presidente Ebrahim Raisi.

Quali problemi pone la morte di Akbari

L’uccisione senza un giusto processo di Akbari pone un triplice problema. Il primo è il rango dell’ex politico giustiziato, accusato di essere una spia del’Mi6 britannico. Il secondo è legato al fatto che dopo aver lasciato il Paese nel 2008 Akbari era stato insignito proprio della cittadinanza del Regno Unito e dunque il fatto è diventato a tutti gli effetti un caso coinvolgente una nazione occidentale di primo piano. Il terzo motivo, sottovalutato nell’analisi mediatica di queste ultime ore, è legato alla natura della detenzione a cui Akbari era sottoposto.

Questi era stato arrestato nel 2019, rientrato in Iran per visitare, a suo dire, degli alti diplomatici coinvolti nel rilancio del dialogo sul nucleare sospeso ai tempi dal presidente Usa Donald Trump. L’ex funzionario è stato accusato di aver fornito informazioni all’Occidente utili per “armare” il Mossad israeliano nell’operazione che ha portato all’eliminazione del massimo scienziato nucleare iraniano Mohsen Fakhrizadeh, ucciso in un attacco del 2020 fuori Teheran.

Le purghe di Teheran

Dunque, uno scenario forzato nel periodo delle proteste ma che nulla ha a che fare con esse. Segno che Teheran sta stringendo la vite della repressione in una fase critica in cui le proteste hanno dato al regime il “libera tutti” per accelerare le purghe. L’uso massiccio di accuse come il “moharebeh“, direttamente proveniente dalla giurisprudenza islamica e legata alla possibilità che i colpevoli “spargano la corruzione sulla Terra” o compiano “violenza contro Dio” come base legale delle impiccagioni richiama alle ore più buie della Repubblica Islamica.

Del resto, come riporta la Cnn, la durezza del clima interno è percepibile anche dall’emersione di voci critiche nello stesso Iran: “Mohsen Borhani, professore all’Università di Teheran ed esperto di giurisprudenza islamica, ha contestato l’uso di tali accuse su base religiosa contro i manifestanti. In un dibattito televisivo del mese scorso, ha sostenuto che i manifestanti giustiziati sono stati accusati di aver intrapreso una guerra contro Dio quando il loro ruolo nelle proteste non meritava in realtà tale accusa”.

Le esecuzioni abbattono la credibilità dell’Iran come partner; l’uccisione di figure come Akbari mostrano la volontà di un repulisti interno al regime e chiamano alla possibilità che Teheran sia tagliata fuori da ogni futuro dibattito politico riguardante la rimozione delle sanzioni, il rilancio del partenariato sul nucleare, il commercio del petrolio. La nascita del sesto governo Netanyahu in Israele mentre l’Iran si inabissa nelle repressioni aggiunge un nuovo, mortale nemico al regime. In tutto l’Occidente sono aumentate le risposte politiche e mediatiche e le mobilitazioni di massa contro la repressione iraniana, l’Onu ha parlato di “omicidio di Stato” e anche i tradizionali partner di Teheran, come Cina e Russia, sono tutto fuorché intenzionate a dare al governo una scialuppa di salvataggio.

In quest’ottica, la prospettiva di essersi inimicati il Regno Unito, Paese che dispone di uno dei migliori comparti intelligence dell’Occidente, uccidendo l’anglo-iraniano Akbari può aprire a una serrata collaborazione Usa-Uk-Israele per destabilizzare, colpire e danneggiare la Repubblica Islamica su ogni fronte. Rendendola di fatto un paria internazionale, strangolandola con sanzioni sempre più asfissianti e una martellante propaganda politica ed evitando ogni prospettiva di rilancio della sua credibilità, l’asse Tel Aviv-Londra-Washington può dare slancio a una strategia sempre più esplicita: puntare, nel medio periodo, al collasso del regime.

Una posizione che acquisisce proseliti anche in Italia, dove il fronte anti-Teheran è guidato dal senatore di Fratelli d’Italia Giulio Terzi di Sant’Agata, ex ambasciatore a Washington ed ex ministro degli Affari Esteri nel governo Monti, che da presidente della commissione Politiche Europee di Palazzo Madama ha parlato dell’ineludibilità di un futuro cambio di regime a Teheran. E s cui, dopo il giro di vite sulle esecuzioni, è sempre più probabile che i governi occidentali inizino a lavorare attivamente.

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