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Il ritorno dei falchi e le nuove tensioni tra Usa e Cina

Le relazioni diplomatiche tra due Paesi rivali dipendono da molteplici fattori. A influenzarle verso nuove tensioni o periodi di collaborazione troviamo anche la variabile rappresentata dai “falchi” e dalle “colombe” presenti all’interno dei rispettivi sistemi politici. Se i primi non intendono in alcun modo tendere la mano all’avversario, e anzi spingono per la sua sconfitta totale, i secondi preferiscono optare per un approccio distensivo, realista e pragmatico. In base a quale dei due fronti assume maggiore rilevanza in un dato momento, avremo quindi periodi storici più o meno carichi di nervosismo. I rapporti bilaterali tra Stati Uniti e Cina non fanno ovviamente eccezione.

Le recenti scintille scaturite in seguito alla vicenda del presunto pallone-spia cinese sono soltanto il sintomo più evidente di un malessere che ha radici ben più profonde. Il Pivot to Asia dell’amministrazione Usa guidata da Barack Obama, tra il 2009 e il 2017, ha anticipato le prime nuvole nere all’orizzonte. La tempesta vera e propria si è scatanata con l’avvento di Donald Trump e la sua guerra dei dazi contro la Cina. Ora, tra il consolidamento dell’asse Pechino-Mosca, il rinnovato interesse della questione taiwanese e la storia del pallone aerostatico cinese, c’è il rischio che le relazioni sino-americane possano raggiungere il punto di non ritorno.



Pressioni e tensioni

Il clima non è affatto sereno, e lo si intuisce da alcuni indizi abbastanza emblematici che potrebbero confermare il ritorno dei falchi. Tanto in Cina quanto negli Stati Uniti.

L’episodio chiave, la punta dell’iceberg, coincide con il rifiuto cinese di interloquire con il segretario della Difesa Usa, Lloyd Austin. Secondo quanto dichiarato da Washington, il Dipartimento della Difesa Usa avrebbe presentato una richiesta di chiamata tra Austin e il ministro della Difesa della Repubblica Popolare Cinese, Wei Fenghe, per parlare dell’abbattimento del pallone aerostatico cinese. “Crediamo nell’importanza di mantenere linee di comunicazione aperte tra gli Stati Uniti e la Repubblica popolare cinese al fine di gestire responsabilmente le relazioni. Sfortunatamente, la Cina ha respinto la nostra richiesta”, ha dichiarato il portavoce del Pentagono Pat Ryder.

Da questo punto di vista le maggiori pressioni sono finite sul presidente cinese Xi Jinping e sul suo ministro Wei Fenghe. L’interpretazione più semplice della versione statunitense, ma anche la più pericolosa se dovesse essere sventolata dai falchi Usa, potrebbe infatti diventare la seguente: gli Usa hanno teso la mano, i cinesi si sono rifiutati di collaborare.

Nel giro di qualche ora, inoltre, sui media americani sono apparse due notizie preoccupanti. La prima: il Washington Post ha scritto che la comunità dell’intelligence statunitense ha collegato il presunto pallone spia cinese abbattuto sabato ad un vasto e presunto programma di sorveglianza gestito dall’Esercito popolare di liberazione. I funzionari americani avrebbero così iniziato a informare alleati e partner che sono stati presi di mira in modo simile. La seconda: il Wall Street Journal ha parlato dell’allerta che l’esercito statunitense ha inoltrato al Congresso Usa lo scorso 26 gennaio, secondo cui la Cina avrebbe superato gli Stati Uniti in termini di numero di sistemi di lancio di missili balistici intercontinentali. “Il numero di lanciatori fissi e mobili di missili intercontinentali in Cina supera quello negli Stati Uniti”, ha scritto nero su bianco lo Us Strategic Command (Stratcom), che ha la supervisione delle forze armate statunitensi.



Il falco cinese

Nell’ottica cinese le relazioni con gli Stati Uniti hanno subito una tremenda scossa lo scorso agosto, con la visita dell’allora speaker della Camera Usa Nancy Pelosi a Taiwan. In quei torridi giorni estivi c’era chi temeva una possibile reazione militare cinese. Pare addirittura che in seno al Partito Comunista Cinese e nell’esercito ci fossero diversi alti funzionari propensi ad usare il pugno duro. Alla fine Xi non ha ascoltato il presunto richiamo di queste voci, limitandosi ad orchestrare alcune esercitazioni militari, per altro già in programma da tempo.

In seguito a quell’episodio, rimosso troppo in fretta dall’arena del dibattito pubblico, la Cina ha interrotto il dialogo con Washington in una serie di aree, comprese quelle militari. Mentre alcuni colloqui sono in seguito ripartiti, le due parti devono ancora riprendere quelli inerenti al tema della difesa. Ebbene, adesso i falchi cinesi potrebbero essere tornati alla carica.

Certo, oltre la Muraglia non c’è la stessa personalizzazione politica presente nel contesto americano, e dunque è difficile fare nomi e cognomi dei personaggi più aggressivi nei confronti di Washington. Il profilo da monitorare con attenzione è comunque quello di Wei Fenghe, il ministro che non ha risposto alla chiamata del Pentagono, già membro della Commissione militare centrale del Partito Comunista Cinese. Il signor Wei, 69 anni, ha trascorso la vita nell’esercito. Si è arruolato nell’Esercito Popolare di Liberazione nel dicembre 1970, all’età di 16 anni, per poi laurearsi all’accademia del dipartimento di comando del Secondo corpo d’artiglieria nel 1984 e scalare i vertici fino ad arrivare al grado di generale. Ha sostituito il generale Jing Zhiyuan come comandante del Secondo corpo d’artiglieria nell’ottobre 2012 ed è stato promosso al grado di generale a quattro stelle nel novembre dello stesso anno. È stato nominato ministro della Difesa nel 2018.

Il ministro della difesa cinese Wei Fenghe (Foto: EPA/HOW HWEE YOUNG)

Le sue posizioni sono chiare e precise. Per quanto riguarda Taiwan, l’isola appartiene alla Cina e l’unificazione nazionale sarà sicuramente realizzata. Il ministro ha più volte ribadito che la Cina punta alla riunificazione pacifica ma che, se qualcuno dovesse osare separare Taiwan dalla Cina, Pechino non esiterà a combattere con ogni mezzo e a qualunque costo. Lo scorso giugno, in occasione dello Shangri-La Dialogue a Singapore, Wei ha ribadito tutto questo il giorno dopo che il suo omologo statunitense, Austin, ha definito la Cina fonte di instabilità nella regione indo-pacifica. Ora, alla chiamata del Pentagono, Wei Fenghe non intende rispondere. 

Le manovre di Usa sui palloni cinesi

Negli ultimi giorni stanno uscendo sempre più dettagli sia sul pallone individuato nei cieli del Montana, sia su quanto Pentagono e intelligence Usa sapessero prima e dopo il suo avvistamento. Il paradosso è che più elementi emergono più la faccenda si fa complessa. Da un lato i servizi segreti americani hanno confermato un vasto programma di sorveglianza voluto da Pechino, dall’altro il dipartimento di Stato guidato da Blinken ha sottolineato che questo programma avrebbe coinvolto almeno 40 Paesi, con raccolta di informazioni sugli asset militari di alleati come Giappone, India, Vietnam, Taiwan e Filippine.

A questo punto scatta la prima domanda: perché se ne parla solo ora? I dubbi crescono anche per il numero di indiscrezioni che stanno uscendo. Si è infatti scoperto che prima del pallone abbattuto al largo della Sud Carolina c’erano stati almeno quattro episodi simili, tre dei quali durante l’amministrazione Trump. Possibile che il tycoon si sia fatto sfuggire la possibilità di attaccare Pechino all’epoca? La risposta a questa domanda è che all’epoca quelle tre segnalazioni non vennero classificate come spionaggio cinese.

Il New York Times ha scritto che quelle incursioni sarebbero state inizialmente classificate come “oggetti volanti non identificati”, Ufo in pratica. Solo in un secondo momento Pentagono e agenzie dell’intelligence Usa avrebbero modificato la classificazione in oggetti-spia cinesi. Non è però chiaro, nota il Times, quando sia cambiata questa classificazione. Funzionari sentiti dal quotidiano hanno spiegato che questa informazione è stata tenuta segreta per evitare di far sapere alla Cina che i loro sforzi di acquisire informazioni fossero stati scoperti.

A gennaio nelle mani del Congresso sarebbe arrivato un report delicato che riportava come almeno due “incidenti di sorveglianza” che coinvolgono una potenza straniera sarebbero avvenuti sul suolo americano. Ufficialmente il dossier non attribuiva alla Cina questi incidenti, ma fonti che hanno parlato con il Times sono concordi nel dire che probabilmente dietro all’evento c’erano agenti di Pechino.

Eppure tutta questa versione potrebbe non essere quella vera. C’è infatti una rete di contraddizioni dietro alle dichiarazioni ufficiali di Pentagono e intelligence. La Cnn ha scoperto che nell’aprile del 2022, quindi quasi un anno fa, era finito nelle mani di deputati e senatori un documento dell’areonautica americana dal titolo abbastanza eloquente: “Pallone ad alta quota della Repubblica popolare cinese”. Nel documento si spiegava che nel 2019 un pallone di sorveglianza cinese aveva “circumnavigato il globo” e in particolare che “era andato alla deriva oltre le Hawaii per poi passare sopra la Florida prima di continuare il suo viaggio”.

Questo dossier in pratica smentisce le parole di una serie di ufficiali Usa sul fatto che gli avvistamenti erano stati classificati come Ufo perché il dipartimento della Difesa era stato incapace di attribuirli alla Cina. Non a caso Trump e i membri della sua amministrazione si sono affrettati a dire che nessun report sullo spionaggio cinese era mai finito sulla loro scrivania.

Persino intorno all’ultimo avvistamento iniziano a montare le polemiche. Sempre Cnn ha saputo che un giorno prima che l’ultimo pallone entrasse nello spazio aereo dell’Alaska l’Defense intelligence agency (Dia), che si occupa di intelligente militare per l’estero, aveva rilasciato un memo sul fatto che un oggetto non identificato era diretto verso il territorio americano. Cnn scrive anche che questo memo non era stato contrassegnato come urgente e che le stesse fonti sentite dalla testata hanno affermato come funzionari di Difesa e Intelligence non ne sarebbero stati allarmati, tanto che lo stesso avvertimento non sarebbe arrivato alla Casa Bianca ne tantomeno sulla scrivania del presidente Biden.

L’allarme, hanno confermato le fonti, sarebbe scattato quando l’oggetto avrebbe virato bruscamente verso sud puntando al cuore degli Usa. A questo punto le domande che meritano una risposta sono diverse: perché non informare la Casa Bianca? Perché il caso è montato rapidamente due giorni dopo? Quali erano i veri interessi in gioco, vedere il comportamento del pallone e preservare l’imminente viaggio i Blinken?

Il ripescaggio dei resti del pallone spia al largo della Sud Carolina (Foto: EPA/US Navy/Mass Communication Specialist 1st Class Tyler Thompson)

I falchi anti cinesi negli Usa

Proviamo a tirare le fila. Abbiamo scoperto che non solo gli Usa sapevano da almeno un anno che presunti palloni spia cinesi volevano sui cieli del Paese e avevano taciuto per raccogliere informazioni, ma sappiamo anche che anche in questa circostanza l’avvistamento non era stato classificato come potenzialmente pericoloso. La differenza è che questa volta la notizia è stata fatta uscire e ha scatenato una tempesta mediatico-politica tale da incidere sulle delicate relazioni tra Usa e Cina.

In fondo Joe Biden ha incontrato Xi Jinping al G20 di Bali a novembre 2022, ben sette mesi dopo il dossier scoperto dalla Cnn che parlava di palloni spia cinesi. Perché questa volta è stato diverso? Nel mezzo si è allargato il fronte dei falchi cinesi dentro e fuori l’amministrazione americana, attecchendo in particolare al Congresso, che ha da poco cambiato colore, con la Camera dei deputati tornata in mano ai Repubblicani.

Le misure di contrasto alla Cina sembrano infatti l’unico terreno comune che unisce i deputati dei due partiti in una stagione di forte contrapposizione. Il 9 febbraio la Camera ha votato una risoluzione di condanna contro la Cina con numeri bulgari, 419 favorevoli e zero contrari. Ma al di là dei voti per capire come si muovono i falchi anti-cinesi va osservato un nuovo comitato: il China Select Committee (approvato con 365 voti contro 65).

Un organo con nessun potere legislativo ma che può svolgere indagini e nello specifico si occuperà di tutti gli aspetti della relazione tra America e Cina: Taiwan, investimenti dei fondi pensione americani in Cina, le proprietà cinesi dei terreni agricoli intorno alle basi militari e persino l’eventuale coinvolgimento di agenti cinesi nella produzione di fentanyl, una delle droghe sintetiche responsabili della violenta crisi degli oppioidi.

A capo del comitato c’è il deputato Mike Gallagher, un repubblicano ossessionato dalla Guerra fredda che vuole indagare su Pechino a 360 gradi. Il gruppo sarà composto da 13 repubblicani, tra i quali un solo componenti di origine asiatica, Michelle Steel nata in Corea del Sud; e 11 democratici, tra i quali tre asiatici, inclusa Raja Krishnamoorthi nato in una famiglia originaria dell’India.

Il peso della fronda anti cinese risiede nel fatto che questo comitato si affianca ad altri due nati negli anni novanta e che forniscono supporto al Congresso in materia di rapporti con la Cina. Non solo. Nel 2021 la Cia aveva annunciato la creazione di un nuovo centro dell’intelligence per “affrontare la sfida globale posta dalla Repubblica popolare cinese”.

In questa delicata fase Washington sa bene che è Pechino ad aver bisogno di riaprire canali diplomatici. Questo permette all’ampio spettro della politica americana di intestarsi la patente di anti-cinese. I Repubblicani, con i testa il senatore della Florida Marco Rubio, spingono per essere sempre più assertivi, tanto che in questo senso Joe Biden potrebbe aver approfittato del pallone per posporre il viaggio i Blinken in Cina e segnare un punto nel tabellone degli anti-Cina così da difendersi dagli affondi del Gop. Ora tutto dipenderà da quello che le agenzie americane troveranno nei resti del pallone, ma soprattutto di quanto queste agenzie faranno arrivare nei media.

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