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Il riarmo dell'Asia e il rischio di un conflitto nell'Indo-Pacifico: cosa si rischia

Le tensioni internazionali alle stelle. Le ombre del passato che riemergono dagli archivi della storia. Il continuo riarmo dei governi asiatici, preoccupati per i venti minacciosi che soffiano da ogni direzione. La riorganizzazione degli Stati Uniti, che hanno acceso i riflettori sull’Indo-Pacifico con l’espressa volontà di contenere l’ascesa della Cina.

In Asia il rischio che possa scoppiare una guerra, non fredda ma caldissima, è sempre più alto ogni anno che passa. Il continente asiatico, fin qui esaltato per essere il motore economico del pianeta – legato all’Europa e all’America grazie ad importanti centri di produzione regionali – è sconvolto da numerosi fattori.

Dal potenziamento militare cinese alle rivendicazioni territoriali e marittime di numerosi attori locali, dalla guerra in Ucraina ai dubbi sul comportamento di Washington (continuerà ad aiutare i suoi partner asiatici in caso di pericolo?), sono tante le cause che hanno spinto le nazioni di questa turbolenta area geografica a rafforzare i rispettivi budget per la Difesa, ad incrementare il flusso di esercitazioni congiunte o semplicemente la produzione di armamenti e infrastrutture militari.



Venti di guerra

Come detto, i principali player dell’Asia stanno investendo ingenti risorse nella Difesa, tanto che, tra il 2010 e il 2020, la spesa militare nella regione asiatica è cresciuta del +52,7%. Molto di più, ha fatto notare lo Stockholm International Peace Research Institute, del +14,4% fatto segnare, nello stesso lasso di tempo, dall’Europa e del -10,6% del Nord America.

I continui test missilistici della Corea del Nord, la modernizzazione dell’esercito cinese e le schermaglie himalayane tra India e Cina. Per non parlare dei sogni di gloria del politicamente instabile ma nucleare Pakistan, del possibile rafforzamento militare della Corea del Sud e della nuova strategia del Giappone: le scintille in grado di innescare un incendio su vasta scala, prima regionale e poi globale, non mancano affatto.

Una prospettiva preoccupante, considerando che l’Indo-Pacifico detiene il 60% della popolazione terrestre, copre i due terzi del pianeta e rappresenta circa il 65% del prodotto interno lordo globale.

La svolta del Giappone

La punta dell’iceberg che rappresenta nel modo migliore e più evidente questa necessità al riarmo è il Giappone. La guerra in Ucraina e il rischio di un’invasione cinese di Taiwan hanno spinto Tokyo ad intraprendere una nuova strategia: costruire un sistema di difesa che non dipenda esclusivamente dall’ombrello statunitense. Basta dare un’occhiata ai tre documenti pubblicati dal governo giapponese: la “Strategia di difesa nazionale”, il “Piano di sviluppo delle forze di difesa” e la “Strategia di sicurezza nazionale” (NSS).

In quest’ultimo si delineano politiche come l’aumento della spesa per la difesa al 2% del prodotto interno lordo e l’acquisizione di capacità di contrattacco per colpire i siti di lancio di missili nemici. L’NSS descrive inoltre il Giappone “nel mezzo del più severo ambiente di sicurezza del dopoguerra”, costretto ad affrontare minacce dalla Corea del Nord e dalla Cina – che hanno ripetutamente lanciato missili vicino alla nazione – e a preparare “una solida base per lo scenario peggiore”.

Ottenere capacità di contrattacco è la caratteristica che accomuna i tre documenti rivisti dalle autorità giapponesi, che cambieranno la precedente politica nipponica di “non avere i mezzi per attaccare un Paese avversario”. In ogni caso, l’uso di contrattacchi, limitati nel caso ad obiettivi militari o basi missilistiche, viene fatto rientrare nelle “misure di autodifesa minime necessarie”, senza così entrare in contraddizione con il famigerato articolo 9 della costituzione (“Il diritto di belligeranza dello stato non sarà riconosciuto”).

Un momento di addestramento delle forze di auto-difesa del Giappone
(Foto: EPA/CHARLY TRIBALLEAU / POOL)

L’ascesa della Cina

La spesa militare della Cina è aumentata per 26 anni consecutivi. Per SIPRI, si tratta del periodo più lungo di qualsiasi Paese. L’Esercito popolare di Liberazione (EPL) è la più grande forza armata del mondo, con oltre 2 milioni di membri all’attivo. Pechino dovrebbe contare su circa 350 testate nucleari che, a detta del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, potrebbero aumentare a 1.000 entro il 2030.

I leader cinesi fanno tuttavia notare due aspetti. Il primo: la spesa militare cinese non ha superato il 2% del pil dall’inizio degli anni ’90. Il secondo: a proposito di minacce, il budget militare di Pechino rimane circa un quarto di quello di Washington.

In ogni caso, Xi Jinping ha cerchiato il 2049 come anno chiave per consentire al suo esercito di essere al pari di quello degli Stati Uniti. Nello specifico, il rafforzamento militare, che quest’anno vedrà un +7,2% in concomitanza con l’intensificarsi delle minacce internazionali. Nel 2023 la spesa militare cinese crescerà al ritmo più veloce degli ultimi quattro anni. Calcolatrice alla mano supererà altre categorie di spesa, come il +5,7% della spesa pubblica generale.

Nell’ultimo decennio, la spesa per la difesa della Cina è aumentata di circa il +10% ogni anno, con il 2014 che ha visto l’aumento più elevato, pari al +12,2%. Il budget militare dichiarato della Repubblica Popolare Cinese ammonta ufficialmente a circa 225 miliardi di dollari, una cifra quattro volte inferiore rispetto a quella registrata dagli Usa. Eppure, ogni minima oscillazione cinese crea ansie e preoccupazioni tra i corridoi della Casa Bianca.

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Riarmo asiatico

In Corea del Sud si respira un’aria diversa da quando il conservatore Yoon Suk Yeol è diventato presidente. Ai test missilistici della Corea del Nord, Soul ha iniziato a rispondere per le rime. Yoon sostiene l’idea di introdurre risorse nucleari Usa sul territorio sudcoreano e vede di buon grado l’aumento del budget militare, tutto rigorosamente in chiave anti Pyongyang.

Nel frattempo, mentre i militari cinesi e indiani continuano a scontrarsi (a mani nude) lungo il confine tra i due Paesi, molti governi del sud-est asiatico hanno mosso le loro pedine sulla scacchiera. Lo scorso febbraio, l’Indonesia, preoccupata per le attività cinesi vicino alle isole Natuna, ha firmato un accordo per l’acquisto di sei aerei da combattimento francesi Rafale – con altri 36 in arrivo – e ha ottenuto l’approvazione degli Stati Uniti per un potenziale acquisto di F-15. Le Filippine hanno recentemente finalizzato l’acquisto di missili supersonici BrahMos dall’India e stanno sviluppando un arsenale strategico. Persino il Vietnam, pur continuando a fare affari d’oro con la Cina, sta potenziando le sue forze marittime.

Il 13 marzo la Corea del Nord ha lanciato per la prima volta missili da crociera da un sottomarino. Lo stesso giorno, l’Australia ha svelato  un piano da 200 miliardi di dollari per costruire sottomarini a propulsione nucleare con gli Stati Uniti e il Regno Unito che ne farebbe solo la settima nazione ad averli.

Dal canto loro, gli Stati Uniti fanno affidamento su cinque grandi alleati nel Teatro dell’Indo-Pacifico: Australia, Giappone, Filippine, Corea del Sud e Thailandia. Washington conta anche circa sui circa 375.000 militari e civili statunitensi assegnati alla medesima regione. Basteranno per arginare le pulsioni cinesi?

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