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Il golpe c’è già stato: cosa sta succedendo davvero in Brasile – Antonello Marzano

Le elezioni di fine ottobre in Brasile non si sono svolte con la cristallina trasparenza democratica che ci si attenderebbe da una delle più grandi e – si pensava – ormai consolidate democrazie del mondo, all’avanguardia fra l’altro per l’ormai ultraventennale utilizzo del “voto elettronico”.

Si sono rivelate, invece, un vero e proprio festival di abusi e di soprusi, con l’arbitraria introduzione di nuovi poteri extracostituzionali e con l’inevitabile rottura degli equilibri fra poteri previsti dalla Carta costituzionale.

Una serie di atti manifestamente anti-democratici e anticostituzionali che hanno costellato negli ultimi due o tre anni tutto il lungo periodo pre-elettorale, e poi quello della campagna elettorale e perfino le stesse procedure di voto nei giorni delle votazioni e dello scrutinio.

Cambio di regime

Partiamo con una triste constatazione: il Brasile non ha avuto solo un cambio di governo il 1° gennaio 2023, ma un vero e proprio cambio di regime. Il passaggio dal regime “sostanzialmente” democratico, pur con tutte le piccole disfunzioni di una democrazia moderna ancora forse troppo giovane, che era in funzione fino ad oggi a partire dalla caduta della dittatura, ad un nuovo regime, “sostanzialmente” antidemocratico e anticostituzionale, che è quello inaugurato dalla rielezione di Lula.

Perché? Perché non si era mai visto che, in appena una settimana di gestione della nuova presidenza, venissero arrestate e sbattute in una sorta di campo di concentramento improvvisato a Brasilia – la capitale del Brasile, che è anche sede delle massime istituzioni e della presidenza della Repubblica – ed esattamente nel “Ginnasio dello Sport”, oltre 1.500 persone.

Detenuti politici

Mai era accaduto qualcosa di simile, con scene che ricordano lo “Stadio Nazionale” di Santiago del Cile all’epoca del golpe Pinochet. In seguito questi detenuti politici si sono ridotti a 900. 900 cittadini brasiliani che vengono mantenuti in una condizione di “prigione preventiva” in attesa di un processo che non avverà e già definiti dai media, dai giudici e dal governo, “terroristi e golpisti”.

Ma chi sono realmente costoro? Di che cosa sono accusati? Sono semplicemente i brasiliani di un Brasile finalmente consapevole e responsabile del proprio destino che è andato maturando e crescendo politicamente durante gli ultimi 12-14 anni come opposizione popolare alla corruzione dilagante ad ogni livello nel Paese e nelle istituzioni, ma soprattutto in politica durante i 15 anni di governo della sinistra sinistra.

È quello stesso popolo che sosteneva l’azione dei magistrati di Curitiba impegnati nell’inchiesta Lava-Jato: l’inchiesta cioè all’interno della quale, accanto a incredibili ruberie ai danni delle maggiori aziende statali, erano emersi anche una serie di reati commessi dall’ex presidente Lula durante l’esercizio dei suoi mandati.

Ed è sempre lo stesso Brasile che nel 2015 chiedeva a gran voce, con continue e gremitissime manifestazioni pubbliche in tutte le principali città del Brasile, l’impeachment della presidente Dilma Roussef.

L’elezione di Bolsonaro

Nel 2018, dopo due anni di governo Temer – che era il vice presidente nel governo di Dilma Roussef – questo nuovo Brasile popolare che durante gli anni delle presidenze di sinistra vedeva crollare l’economia, l’occupazione e il valore dei propri risparmi discioltisi come neve al sole assieme alla voragine dei conti pubblici dello Stato e delle principali imprese pubbliche, Petrobras in primo luogo, è riuscito ad eleggere Jair Bolsonaro alla Presidenza contro ogni aspettativa e contro tutti i poteri forti e l’intero mondo dei media.

Il ritorno di Lula

Durante la lunga fase, durata più di un anno, che ha preceduto le elezioni dello scorso ottobre, questo Brasile assetato di trasparenza e di democrazia ha visto compattarsi il potere giudiziario attorno al gruppo di giudici del STF (il Supremo Tribunal Federal, la Corte costituzionale di Brasilia), i quali hanno fatto tutto quanto nei loro poteri, e anche ben oltre quelli, per annullare molte condanne della Lava-Jato.

E, con trucchi e manipolazioni dei principi giuridici, perfino i processi che avevano condannato Lula dopo tre gradi di giudizio a 12 anni di prigione, fino a renderlo nuovamente candidabile e perfino rieleggibile in occasione delle presidenziali del 2022.

Il popolo di Bolsonaro

Con queste premesse, e visto l’esito del voto di appena tre mesi fa, il grande movimento popolare di brasiliani che invocano trasparenza e democrazia, e che dicono no alla corruzione e no ai governi di sinistra, si è riunito per settimane e settimane nelle strade delle città brasiliane e lì è rimasto, pacificamente, accampandosi nei pressi delle caserme militari con intere famiglie, sedie a sdraio e carrozzine per i bambini, chiedendo l’intervento dei militari per il ripristino delle regole democratiche tradite al solo fine di scongiurare una nuova vittoria di Bolsonaro.

Attenzione: non si tratta dei soliti reazionari che invocano il ricorso alla forza contro gli avversari politici. Il mondo bolsonariano non è un mondo di violenti. È un mondo di gente semplice, che non conosce le sottigliezze della politica e che ragiona in modo elementare.

L’invocazione dei militari

Il ricorso all’intervento dei militari non implica sic et simpliciter la richiesta di un regime repressivo, reazionario come possiamo concepirlo noi, ma di un Brasile più giusto e più sicuro, e di una politica finalmente libera dalla corruzione dilagante.

Ecco la ragione della loro richiesta di un intervento militare: se non esiste più l’equilibrio fra i poteri, se il vertice del potere giudiziario, che dovrebbe garantire il rispetto della Costituzione, è ai suoi massimi livelli alleato con una parte del potere politico contro il potere esecutivo, e se questa alleanza dispone del supporto totale del potere mediatico, dai giornali alle tv e a buona parte del web, a chi può rivolgersi il brasiliano che si sente espropriato dei suoi diritti democratici se non al potere militare?

La realtà ha dimostrato che anche il potere militare era stato soggiogato e asservito al nuovo regime nascente, e che il popolo bolsonariano è stato semplicemente abbandonato al proprio destino.

Il potere “anomalo” di de Moraes

Oggi si sta realizzando un progetto che prevede un legame forte e saldo fra il STF e l’Esecutivo attraverso il Ministero di giustizia e tutto l’apparato di repressione dello Stato. Il potere anomalo e illegale che è stato assunto dal potere giudiziario e che ha portato al ritorno di Lula alla presidenza dopo le condanne per corruzione attiva e passiva e per riciclaggio, viene confermato e anzi rafforzato.

Dopo le elezioni, invece di un ritorno alla normalità costituzionale che era stata annunciata dallo stesso Lula con un richiamo all’urgenza di una “pacificazione nazionale”, le cose sono peggiorate: prigioni di massa, minaccia di processare politicamente migliaia di persone, censura nelle reti social, multe e blocco dei conti correnti bancari per coloro che vengono accusati di opposizione al regime.

La Costituzione del 1988 è travolta e stravolta. La nuova legge è quella che viene applicata dal giudice del STF Alexandre de Moraes: un’incessante sequenza di inchieste, illegali e senza limiti di sorta, per punire quelli che sinistra e media definiscono all’unisono “atti-antidemocratici” e “disinformazione”, reati che non esistono nella legislazione del Brasile, certamente non nelle forme in cui vengono oggi presentati, e non come strumento di persecuzione politica.

Le inchieste del giudice de Moraes non prevedono processi, e le decisioni assunte a suo insindacabile giudizio non ammettono ricorsi o gradi di giudizio superiori.

Il “Sistema Lula”

Questo il biglietto da visita del nuovo regime, il “Sistema Lula”. Il “Sistema Lula”, come il nuovo regime della sinistra viene chiamato dagli oppositori, è un regime mosso innanzitutto dal desiderio di vendetta e da una lucida strategia di “prevenzione” dell’eventualità che un fenomeno Bolsonaro possa ripetersi in futuro.

In quest’ottica, come nota il giornalista J. R. Guzzo – uno dei pochissimi non allineati con il nuovo regime – il sistema Lula farà, e già fa, di tutto per impedire che l’altra faccia del Brasile possa tornare ad essere politicamente significativa nella politica nazionale. E così della sbandierata pacificazione non si vede neppure l’ombra.

Al contrario, il nuovo potere semina odio e intolleranza contro i “terroristi e golpisti” che hanno osato manifestare pacificamente per molte settimane dopo le elezioni. Del resto, è lo stesso nuovo ministro della giustizia ad affermare che “Il tempo degli arresti in flagranza di reato è passato. Ora gli arresti devono essere preventivi e temporanei”.

Le proteste di Brasilia

È vero, durante le proteste di Brasilia sono stati commessi una serie di reati molto gravi a danno del patrimonio pubblico e sono stati compiuti atti di violenza del tutto gratuita. Ma ci si dovrebbe chiedere forse come sia possibile che pacifiche famigliole accampate da mesi con le loro seggioline e i loro lettini da campeggio nei pressi delle caserme militari si siano trasformate improvvisamente in facinorosi e violenti professionisti dei disordini quasi fossero bande di black-bloc addestrati militarmente.

Non sarebbe da chiedersi se nella massa di pacifici manifestanti non si siano infiltrati ad un certo punto individui “esterni” al solo scopo di provocare disordini e violenze?

E non ci si dovrebbe, a questo punto, chiedere anche come sia stato possibile che, nel suo primo pronunciamento su quei fatti, a distanza di pochissime ore da essi, Lula avesse già pronto e dattilografato nelle proprie mani il decreto di intervento nel Distretto Federale (il piccolo Stato brasiliano coincidente con la capitale Brasilia). Tutte domande destinate a restare senza risposta.

Un nuovo ordine

Oggi sappiamo che in Brasile regna un nuovo ordine a-democratico in cui i Poteri non sono più quelli previsti e descritti nella Carta costituzionale, ma altri, costruiti sulla base di un accordo fra il STF e il potere politico, e sostenuto dalla grande maggioranza dei colossi mediatici, a partire dalla Globo e dalla Folha de Sao Paulo.

Il problema sta ora nel mettersi d’accordo sul concetto di “legalità” che è alla base di uno stato di diritto: per quale ragione la presunta “illegalità” dei manifestanti di Brasilia – definiti “terroristi e golpisti” senza bombe, senza attentati, senza truppe armate, senza cannoni, senza carri armati, senza alcun accordo con i comandi militari – dev’essere considerata più illegale dell’ormai permanente “illegalità costituzionale” di nuovi poteri autocostituitisi arroccandosi da una parte politica, come quello rappresentato dalla figura del ministro del STF Alexandre de Moraes?

L’allarme del WSJ

È sintomatico che ormai anche su giornali come il New York Times e il Wall Street Journal si denunci il “rischio” di una deriva repressiva e antidemocratica orchestrata dal Supremo Tribunale Federale per far fuori Bolsonaro e il suo seguito popolare e reinsediare Lula dopo aver annullato i processi e le sue condanne. Hanno ragione: sbagliano solo nel definire un rischio ciò che già oggi, di fatto, è una realtà.

Come ha osservato Mary Anastasia O’Grady sul WSJ, la Corte Suprema brasiliana è “una minaccia ancora più grande per la democrazia rispetto alle rivolte dell’8 gennaio”.

Se per la narrazione più comoda alla sinistra la democrazia brasiliana è minacciata da una destra populista che si ispira a Trump, “l’imminente pericolo per la libertà ora in agguato in Brasile è una Corte Suprema che sta imbavagliando i suoi critici, congelando i loro beni e persino incarcerando alcuni, il tutto senza un giusto processo“.

Sotto la guida del giudice de Moraes come capo del tribunale elettorale, che ha governato la campagna elettorale e l’anno elettorale, è stata approvata una risoluzione per criminalizzare la “disinformazione” e le fake news, anche se non esiste una legge del genere. Il giudice de Moraes, conclude O’Grady, è diventato “il volto di un giro di vite sulla libertà di parola che non si vedeva da quando il Paese è tornato alla democrazia con la Costituzione del 1988″.

Sostegno ai regimi socialisti

Un governo, tra l’altro, che torna deciso a saccheggiare le casse pubbliche per correre dietro al sogno socialista della spesa pubblica senza freni e della costruzione di un grande socialismo continentale che prevede il sostegno alle economie dei Paesi socialisti amici dell’America Latina.

E così Lula, fra le prime azioni del suo nuovo governo, si è già impegnato a finanziare in Argentina, con i soldi dei brasiliani, il gasdotto Nestor Kirchner, facendo seguito ai precedenti finanziamenti dei governi brasiliani di sinistra gentilmente concessi a Cuba, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Mozambico, ecc. per costruire aeroporti, porti commerciali, gasdotti, nuove reti della metro nei Paesi governati da sciagurati “companeros” della stessa tribù politica, coi risultati catastrofici che abbiamo davanti agli occhi.

In Argentina, tanto per fare un esempio, già si parla del generoso “amico” brasiliano pronto a proporre, dio non voglia, una moneta unica dei Paesi latinoamericani.

Con l’inflazione argentina ormai al 100 per cento e oltre, e in costante crescita, e quella brasiliana al 6 per cento grazie alla virtuosa politica economica di Paulo Guedes, ministro liberista dell’economia del governo Bolsonaro, a occhio e croce non sarebbe un grande affare per i brasiliani dover condividere la moneta con i cugini argentini. Ma questo è solo l’inizio di un incubo che è appena cominciato.

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