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Il G7, il voto all'Onu e la diplomazia che si muove tra “pace” e “vittoria”

Un anno dopo l’inizio della guerra in Ucraina, la diplomazia continua a interrogarsi sule modalità con cui il conflitto possa terminare. Al netto infatti delle posizioni diametralmente opposte – ovvero la vittoria dell’Ucraina sul campo di battaglia con completo ritiro russo oppure, viceversa, la vittoria di Mosca – esiste una complessa macchina diplomatica che cerca di muoversi per superare quella che al momento appare una completa paralisi bellica.

Trecentosessantacinque giorni dopo il fatidico annuncio di Vladimir Putin, le notizie su questo fronte sono almeno tre.

Il piano cinese e l’assemblea Onu

Da un lato il piano in 12 punti proposto dalla Cina, che, pur apparendo più un manifesto programmatico che un piano concreto di pace fra i due contendenti, sottolinea un rinnovato interesse di Pechino verso il conflitto. Una scelta che non va sottovalutata, poiché tanti osservatori sottolineano che forse solo Xi Jinping potrebbe dissuadere il presidente russo da intensificare un conflitto che rischia di diventare fuori controllo. Ma è una scelta che allo stesso tempo sottolinea come Pechino guardi con ben poca ammirazione verso le mosse occidentali, considerando anzi questo conflitto uno strumento per comprendere le modalità di comportamento dell’Occidente e sottolineandone le differenze anche verso i propri partner.

La seconda notizia è la risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvata con 141 voti a favore, 7 contrari e 32 astenuti che indica il desiderio di una pace “giusta” in Ucraina. Un voto che Kiev e l’Occidente hanno interpretato in modo molto positivo, dal momento che la Russia appare certamente minoritaria nell’approvazione di questo conflitto. Ma è una risoluzione che dimostra anche la ritrosia molti Paesi nel mettersi completamente di traverso al Cremlino, e allo stesso tempo la capacità russa di avere comunque una serie di partnership che resistono nonostante tutto.

Se infatti i sette voti contrari appaiono abbastanza scontati e poco significativi come peso nella consesso Onu, le 32 astensioni sono tutt’altro che minime, considerato che tra esse spiccano Cina, India, Pakistan, Iran, Algeria, Sudafrica, diversi Paesi africani (anche partner italiani) e dell’Asia centrale, oltre che due Stati sudamericani. E questo, dal punto di vista occidentale, sottolinea che – come ha detto il presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, “occorre intensificare i contatti con quei Paesi che si sono ancora astenuti” avvicinandosi a quel blocco del “Sud del mondo” che non è così intransigente rispetto a Putin.

Lo snodo del G7

Il terzo momento importante di questo anniversario dell’inizio dell’invasione russa è poi la riunione del G7, con Joe Biden che ha twittato a fine riunione virtuale che “ora non solo l’Ucraina resiste, ma la coalizione globale a sostegno dell’Ucraina è più forte che mai, con il G7 come ancoraggio. Abbiamo parlato ancora per rinnovare il nostro impegno a imporre a Putin costi senza precedenti”. Un segnale molto chiaro sul fatto che, quantomeno a livello di sanzioni e di pressione diplomatica, Washington e i principali alleati non faranno marcia indietro fino appunto alla vittoria di Kiev. La nota congiunta dei leader alla fine dell’incontro virtuale va ancora più in profondità: “Chiediamo a Paesi terzi e a tutti gli attori internazionali che cercano di aggirare le sanzioni fornendo sostegno materiale alla Russia di smettere immediatamente o dovranno affrontare sanzioni durissime”.

Sul punto, va sottolineato un aspetto lessicale di non poco conto. Se infatti gli alleati ucraini parlano di una “vittoria” di Kiev, chi muove i fili del negoziato parla di “pace”. Questo implica due temi. Il primo è cosa si intende per “vittoria”, una questione su cui ha scritto un’interessante analisi il portale Politico, che ha sottolineato come l’Occidente parli di essa senza però fornire esattamente i dettagli di come possa essere. quindi che tutti coloro che si pongono a sostegno dell’Ucraina sono già esclusi da un potenziale terreno di mediazione tra l’invasore e l’invaso. E allo stesso tempo, sottolinea inevitabilmente che qualsiasi ipotesi di mediazione, almeno per il momento, non può arrivare se non dal cosiddetto “sud del mondo” oppure da canali diversi rispetto a quelli dei leader. Canali militari potrebbero ad esempio iniziare a riflettere su una soluzione “coreana” che preveda quantomeno uno stallo e una zona deconflittualizzata (gli Stati maggiori ribadiscono da tempo che al momento appare difficile sia una vittoria militare russa che una ucraina). Mentre sotto il primo aspetto, quello della diplomazia, i tentativi (velleitari) di accordi arrivano da attori terzi poco graditi a Washington, come appunto Pechino, oppure da protagonisti che non fanno parte del blocco europeo, ormai impossibilitato a trattare, come ad esempio la Turchia.

A questo proposito, oggi il presidente turco Recep Tayyip Erdogan telefonato a Putin chiedendo “una pace giusta senza ulteriori perdite di vite umane e distruzioni” e a Volodymyr Zelensky dicendo di “essere pronto a contribuire in ogni modo possibile alla costruzione di un cessate il fuoco e a una soluzione negoziata per arrivare alla pace tra Ucraina e Russia”. La risposta del presidente ucraino, in riferimento alla possibilità di un negoziato con Putin mediato da Ankara, è stata netta: “Non lo accetto”.

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