C’è una vecchia barzelletta irlandese, in cui una persona chiede delle indicazioni e si sente rispondere “io non partirei da qui”. Dare consigli all’Unione Europea in tema di strategia economica pare molto la stesa cosa: hanno commesso così tanti errori spontanei, come l’austerità fiscale, per cui vorrei davvero non partire da qui. Eppure devo.
Prima di iniziare, dobbiamo fare chiarezza sui limiti del nostro tentativo. Non possiamo più trasformare l’UE, con l’eurozona alla propria base, nell’economia di punta del mondo. Questa era un’ambizione ragionevole nella prima fase dell’unione monetaria. Ricordo una conversazione privata e risalente a quel periodo con il fu ministro italiano delle finanze Tommaso Padoa-Schioppa: economista di formazione, in precedenza membro del consiglio di amministrazione della Banca Centrale Europea, il quale eppure descriveva l’euro non in termini economici ma come uno strumento geopolitico. Lo vedeva come uno strumento per sfidare il dollaro statunitense, e con esso la supremazia economica degli Stati Uniti.
Da allora si sono intromessi una crisi di debito sovrano, una pandemia, una guerra, ed il ritorno di un’alta inflazione. I ripetuti traumi degli ultimi dieci anni hanno lasciato l’economia europea esposta e debole: l’Italia non ha quasi avuto alcuna crescita produttiva dal 2000, ed altri Paesi, persino la Germania, stanno ora attraversando la stessa situazione. L’Europa non ha colto la rivoluzione digitale, la base della creazione del benessere nell’era moderna, e ha commesso una serie di errori di policy.
Quelli di noi che combattevano per l’idea di un euro geopolitico hanno perso il dibattito. Abbiamo abbassato le nostre ambizioni. Ma anche in questa situazione, il mondo delle seconde opzioni non è da sottovalutare. Tra queste, darei la priorità a tre: migliorare il regime di policy macroeconomico; completare l’unione dei mercati di capitali; ed investire nella trasformazione digitale. E per investire, intendo investire per davvero.
Migliorare il regime macroeconomico è una questione importante. L’attuale sistema ha creato degli squilibri strutturali nord-sud che saranno difficili da correggere, e non vedo possibilità per cui ciò possa accadere senza un’unione fiscale. L’approvvigionamento della difesa sarebbe un’area ideale dove l’UE potrebbe beneficiare di economie di scala attraverso la centralizzazione. Anche gli investimenti green e le politiche energetiche andrebbero gestiti centralmente, benché ciò possa apparire politicamente difficile, e sarebbe incredibilmente più efficiente. La piccola unione fiscale acquisirebbe poteri di riscossione delle imposte e di emissione di debito; alla BCE andrebbe consentito di comprare eurobbligazioni rilasciate dall’unione fiscale, a spesa delle obbligazioni rilasciate dagli Stati membri. Modificherei anche i trattati per permettere una maggiore coordinazione tra la BCE ed un futuro Ministero della Finanza Europeo. La coordinazione fiscale-monetaria rappresenta un prerequisito essenziale per una politica macroeconomica di successo durante tempi di crisi. Questa è una lezione che possiamo apprendere dagli Stati Uniti. Non dobbiamo nemmeno rinunciare all’indipendenza della banca centrale.
La mia seconda priorità è l’unione dei mercati di capitali. Una voce che è da tempo sulla lista UE delle cose da fare, ma che non è mai stata spuntata poiché l’Unione Europea pensa sempre che vi sia altro più importante da fare. Specialmente se combinata con una piccola unione fiscale, un’unione dei mercati di capitali potrebbe rappresentare una svolta per la finanza aziendale e gli investimenti. Senza, le nostre industrie e capitali di rischio non competeranno mai con le loro controparti americane, e nemmeno i nostri mercati obbligazionari. L’euro rimarrà una seconda, distante valuta globale. Un’unione monetaria, un’unione fiscale ed un’unione dei mercati di capitali sono tutte fatte l’una per l’altra. Tale progetto contemplerebbe anche il completamento dell’unione bancaria. Quella che abbiamo adesso è un’unione bancaria soltanto di nome. Le grandi banche vengono supervisionate dalla BCE, ma all’UE mancano un efficiente regime di risoluzione delle banche e un’assicurazione di deposito comune. L’attività bancaria oggi è più nazionale di quanto lo fosse nel 1999 quando venne creato l’euro.
E infine, se dovessi anteporre una categoria di spesa, sarebbe la modernizzazione digitale. Il principale problema digitale dell’Europa non è la mancanza di hardware, quali le reti di fibra ottica,, ma la mancanza di una sofisticatezza digitale. La digitalizzazione non riguarda soltanto i computer in sé, ma anche come noi attraverso di essi interagiamo con il mondo. I modelli di business europei sono fermi all’epoca analogica: in Germania aziende e industrie interagiscono ancora l’un l’altra e con i clienti attraverso le fiere commerciali, una struttura tradizionalmente da XX secolo; vendono tramite commercianti all’ingrosso e al dettaglio anziché online, e non creano comunità di clienti e potenziali clienti. La digitalizzazione dell’era moderna è una questione di interazione tra network.
Di tutto ciò, la mia previsione è che l’UE non farà nulla. L’UE ha perso l’attimo per scegliere una strategia migliore nei primi anni 2000, quando concentrò tutti i propri sforzi politici su riforme strutturali; l’ha perso nel decennio successivo, durante la lotta alla crisi di debito sovrano; e gli ultimi tre anni sono stati dominati dalla pandemia e dalla guerra. L’UE vive nel momento, sempre distratta dalle ultime mode.
In risposta all’Inflation Reduction Act degli USA, l’UE protegge le industrie esistenti, ritorna al patto di stabilità soltanto con alcune modifiche minori, e riduce la propria ambizione globale a quella di regolatore del mondo. Ma come si possono regolare le industrie digitali se non ci si mette in gioco in prima persona?
Il resto è segnalazione di virtù della politica economica. Il Green Deal? O i 300 milioni di euro del programma di investimenti di Juncker nel 2014? La maggior parte si è rivelata aria fritta. Ammetto che il Recovery Fund fosse fatto di soldi veri, ma si trattava di uno schema una tantum. Aiuterà un po’ l’Italia, ma con 310 miliardi di euro tra i cinque e i sette anni, il programma è troppo piccolo per avere un impatto durevole su un’economia con le dimensioni dell’eurozona. Allo stesso modo dubito che avrà un grande impatto sulla crescita produttiva italiana. L’UE ha dei programmi a mosaico, ma non una strategia onnicomprensiva che li unisce. Eppure, noi europei siamo circondati da Paesi i cui leader pensano strategicamente.
L’amara ironia della situazione è che ad un punto diventa davvero razionale dire “io non partirei da qui”. Dopodiché, parleremmo delle terze opzioni.
L’autore è il Direttore di www.eurointelligence.com
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