I “war game” che hanno simulato una guerra tra Cina e Stati Uniti nel Pacifico non sono andati come previsto, né per il Pentagono né per i think-tank americani. In caso di invasione di Taiwan, ipotesi continuamente studiata dalle accademie e dai centri di ricerca Usa, in quasi tutti gli scenari Pechino è risultata vincente, anche nell’eventualità di un intervento statunitense a sostegno dell’isola. Nella maggior parte dei casi, si parla di un’occupazione nell’arco di poche settimane, o addirittura di pochi giorni. Qualcuno suggeriva la possibilità di una guerra di lunga durata: unica possibilità di “vittoria” da parte delle forze Usa secondo i più critici.
È difficile, se non impossibile, prevedere nello specifico come potrebbe essere una guerra tra Washington e Pechino qualora dovesse esplodere per il controllo dell’isola. Anche perché in parte queste simulazioni di conflitti sembrano quasi desiderare di mostrare l’ipotesi peggiore in modo che si parli dei problemi delle forze armate Usa. Le analisi dei think tank e questi “war games” ci aiutano però ad avere alcune indicazioni su cosa il Pentagono potrebbe fronteggiare in caso di intervento a sostegno di Taipei, e che ha scelto di rendere pubbliche probabilmente anche per incentivare la politica a cambiare agenda sul fronte dell’Indo-Pacifico. E tutto questo ruota intorno al fattore navale.
Due marine in due situazioni diverse
Un primo punto che sembra essere centrale in tutti gli scenari è quello strutturale: le due marine non sono più così distanti come lo erano un tempo. La flotta cinese si sta armando da molti anni, cercando di ridurre il divario con la Us Navy. Percorso non certo semplice, dal momento che parliamo di una marina, quella di Pechino, che non è mai stata impiegata in un teatro operativo, a differenza di quella statunitense e che soffre un “gap” di decenni. Tuttavia, le informazioni che giungono dalla Repubblica popolare segnalano che i passi in avanti compiuti in questi anni sono stati molti, sia sul piano tecnologico sia su quello meramente numerico, coinvolgendo tutti i domini in cui potrebbe svilupparsi un’eventuale guerra per la parte occidentale del Pacifico.
La modernizzazione cinese e la sfida dell’impreparazione
L’esercito di liberazione popolare marcia a tappe forzate verso una modernizzazione che si orienta sul fronte dei satelliti, dei mezzi senza pilota, dei missili, delle difese costiere, delle basi per sottomarini, portaerei, navi di superficie di diverso tonnellaggio e potenza di fuoco, una marina “nascosta” di pescherecci e navi commerciali utilizzabili come unità da guerra o da trasporto, fino ai sistemi elettronici e di spionaggio e controspionaggio all’avanguardia con sistemi di sensori che costruiscono una trincea elettronica subacquea e di superficie per tutto il Mar Cinese Meridionale.
Inoltre, sotto il profilo della mera quantità, un recente report per il Congresso degli Stati Uniti segnala che le dimensioni e i piani per la futura composizione della marina cinese non riescono mai a essere davvero note, non esistono obiettivi ben definiti da parte della marina di Pechino né per la forza attuale, né per le unità programmate né per quelle prossime al ritiro.
In America temono che questi livelli siano stati sottostimati, altri invece segnalano che possano essere sovrastimati, ma in ogni caso non esistono conferme trasparenti su quantità, qualità, numeri e potenziali sviluppi di questo avversario del Pentagono. L’Office of Naval Intelligence degli Stati Uniti prevede che entro il 2030 la forza marittima cinese potrebbe impiegare fino a mille imbarcazioni per una invasione di Taiwan. Per quella stessa data, un rapporto del Center for Strategic and Budgetary Assessments riferisce che la Marina dell’Esercito popolare di liberazione potrebbe avere “fino a cinque portaerei e 10 sottomarini con missili balistici nucleari”.
Una forza che però ha un enorme handicap di natura strategica: le unità del gigante asiatico non solo non hanno personale con esperienza operativa, ma non sono nemmeno mai state testate in uno scenario reale. Questo è un tema fondamentale per qualsiasi potenza, tanto più per una che cerca di modificare lo status quo del Pacifico e scalare le gerarchie mondiali.
La Cina è fondamentalmente un Paese sconosciuto dal punto di vista bellico, non solo navale. Come riportato da The Atlantic, John McLaughlin, un ex direttore ad interim della Cia, ha addirittura affermato che non si sanno nemmeno i reali obiettivi di Pechino e che la Repubblica popolare “rappresenta ancora un’enorme incertezza” sotto tutti i profili. Ian Easton, su The Diplomat, ha sottolineato che “nessuno che presta servizio oggi in Cina ha alcuna esperienza di combattimento” e che “l’esercito cinese non si addestra in ambienti realistici e altamente complessi”. Fattori che secondo Easton bastano, per molti esperti, a dare un netto vantaggio al Pentagono.
La grande preoccupazione Usa
Dall’altro lato, la Marina degli Stati Uniti, certamente più potente, più addestrata e con una dottrina ben radicata nella tradizione strategica di Washington, sembra sentire il peso di una macchina che appare indebolita e in cui il processo di modernizzazione che non si è mai davvero concretizzato. Le analisi puntano il dito su una flotta attualmente potente ma che rischia di diventare presto obsoleta, su programmi di rinnovamento apparsi spesso più rivoluzionari che utili o addirittura realistici, su mezzi usurati da un impiego costante e che invece hanno bisogno di manutenzione.
Tanti puntano il dito su una politica miope o su comandanti poco interessati a migliorare davvero l’efficienza della flotta Usa. Inoltre, il centro Rand ha posto il problema di una filiera della cantieristica militare sempre meno preparata e sempre più oberata di lavoro, con una manutenzione che è indispensabile, notevolmente complessa e in assenza di personale adeguato perché sottoposto a un continuo ricambio. Qualcuno ha paragonato la situazione della Marina oggi a quella dell’esercito Usa alla fine degli Anni Settanta, con le difficoltà nate dopo la disfatta del Vietnam.
Questo non significa certo che la flotta americana sia arretrata o priva di forze, ma quello che si evince dai più recenti dibattiti nel panorama statunitense è che esiste un ampio dibattito sul fatto che la Navy sia sempre più importante per la strategia di Washington ma allo stesso tempo sempre meno pronta e predisposta per difenderne gli interessi.
Il vantaggio cinese: la geografia
Se questi sono i problemi dal punto di vista strutturale, vi è poi il tema geografico, che chiaramente è fondamentale nell’ottica di una guerra che potrebbe scoppiare nel Pacifico occidentale. La distanza inevitabilmente gioca a sfavore di Washington che, per intervenire in massa in una qualsiasi situazione di crisi, avrebbe uno svantaggio di decine di ore di volo o di giorni di navigazione rispetto alle forze armate cinesi. Come affermato dal portale War on the rocks, “se gli Stati Uniti tentassero di combattere la battaglia per Taiwan facendo affidamento principalmente sulle forze militari situate a ovest di Guam, le perdite statunitensi sarebbero gravi. Gli Stati Uniti e i loro alleati potrebbero portare a una situazione di stallo l’Esercito popolare di liberazione. Ma il costo potrebbe benissimo essere troppo alto da sostenere per la società statunitense”.
In sostanza, mentre la Cina concentrerebbe tutte le sue forze, anche a costo di enormi sacrifici, su un obiettivo considerato fondamentale, geograficamente vicino e senza un impiego di forze in giro per il mondo, gli Stati Uniti avrebbero le basi del Pacifico occidentale sotto tiro, il rischio di dover muovere unità o gruppi molto distanti tra loro, con un problema di natura logistica e di sicurezza di basi e convogli. Questa ipotesi sarebbe verosimile, dal momento che le unità americane nell’Indo-Pacifico non possono, per forza di cose, sorreggere un confronto costante e continuato con tutte le forze della Repubblica popolare senza esaurire le scorte o subire eccessive perdite.
Migliaia di missili al giorno
A questo proposito, prosegue l’analisi, basandosi sulle stime del numero di aerei, la potenza aerea cinese potrebbe lanciare ogni giorno circa 1.400 attacchi missilistici sia con verso terra che antinave, al punto che le sole forze Usa presenti nell’area dell’Indo-Pacifico – in particolare i gioielli rappresentati dalle portaerei – potrebbero essere severamente danneggiate o costrette a dover ripiegare lontano da Taiwan. Preoccupa a questo proposito soprattutto lo sviluppo da parte della Cina di due classi di missile balistico antinave (il DF-21D e il DF-26) che potrebbero cambiare, se confermata la loro efficacia, il corso di una guerra contro i gruppi d’attacco della Us Navy. Come ricorda inoltre Affari Internazionali, “la marina cinese sta lavorando anche ad un nuovo modello di missile balistico antinave (il YJ-21) progettato sin dall’inizio con lo scopo di colpire task force navali americane”.
L’ipotesi presa in considerazione in diversi wargame sarebbe quella di contrattaccare utilizzando i bombardieri in grado di colpire da lunghe distanze, al di fuori del raggio d’azione dei missili cinesi. E in questo senso, tanti osservatori sottolineano che l’unico modo per bloccare davvero le forze armate del colosso asiatico in caso di invasione di Taiwan sarebbe un massiccio impiego di missili a lungo raggio e sfruttando la flotta di bombardieri o navi e sottomarini da lunga distanza.
Alcune stime ritengono che si potrebbe arrivare a un lancio di circa 800 missili a lungo raggio al giorno da parte dei militari statunitense. Si creerebbero dunque le premesse per una pioggia di fuoco su Taiwan e sulle basi Usa più vicine alla Cina da parte di Pechino e, dall’altro lato, un lancio di missili da lunghissima distanza delle forze Usa per colpire il più possibile le unità impiegate nella guerra di invasione.
Arsenali adeguati al loro scopo? Il “test” ucraino
Tuttavia, ammettendo che questo possa essere il tipo di confronto più plausibile scelto da Washington per evitare che le sue portaerei finiscano sotto il tiro nemico, resta un enorme punto interrogativo: quello delle scorte. L’industria bellica, come visto con l’Ucraina, non è immediatamente reattiva alle esigenze sul campo. A fronte di investimenti enormi, con un fiume di denaro che alimenta l’intero complesso militare-industriale, l’Occidente continua a non riuscire a far fronte alle richieste di Kiev, scoprendosi debole dove pensava di essere abbastanza al sicuro. Se questo è accaduto per un conflitto dove formalmente gli Stati Uniti non sono impegnati e dove non ci sono forze Usa sul campo paragonabili nemmeno lontanamente a una guerra su vasta scala, il dubbio che in guerra con la Cina le cose sarebbero molto più difficili non è così remoto.
In questo caso, Pechino avrebbe dalla sua un Paese che potrebbe orientarsi completamente in base alle direttive del Partito comunista, in grado di impiegare molti più mezzi, molte più tipologie di missili e mezzi anche vecchi ma utili al loro scopo. Per gli Usa invece ci sarebbe un problema diverso: se vuole evitare al massimo perdite deve amplificare notevolmente la quantità di missili a lungo raggio da utilizzare con quel ritmo. E questo vale anche per i missili antinave, dal momento che il confronto per la difesa di Taiwan si svolgerebbe inevitabilmente sul piano marittimo, con una flotta cinese molto meno forte di quella Usa ma estremamente numerosa e quindi molto più difficile da neutralizzare con un numero limitato di strike.
Assalto anfibio? Un grande rischio
Una potenziale guerra navale tra Cina e Stati Uniti intorno all’isola di Taiwan presuppone poi un ulteriore scenario da prendere in considerazione, che è quello che terrorizza Pechino. Conquistare l’isola non è infatti solo difficile per via della struttura militare e anche abitativa di Taiwan, ben difesa e fortificata, ma anche perché – parlando esclusivamente del confronto navale – la Marina degli Stati Uniti (e degli eventuali alleati) potrebbe concentrarsi proprio sul colpire la flotta da trasporto, che sarebbe immensa. Le navi cinesi dovrebbero infatti navigare per più di un centinaio di miglia rischiando di essere in balia dei missili antinave e dei siluri delle forze armate Usa, trasformando la spedizione in un massacro. E quelle sopravvissute, si troverebbero poi a dover far fronte a una Taiwan che da tempo si è blindata con una difesa costiera in grado di resistere a diverse ondate e colpire sensibilmente le capacità anfibie della Repubblica popolare cinese.
Un nemico che, come ricorda un’indagine della Cnn, dovrebbe comunque pensare di sbarcare a Taiwan con una forza superiore di circa tre volte rispetto a quella che si difende. A questo proposito, il media Usa cita una dichiarazione di Howard Ullman, ex ufficiale della marina e professore presso lo US Naval War College, che in un approfondimento per l’Atlantic Council scriveva che “con una potenziale forza difensiva di 450.000 taiwanesi, la Cina avrebbe bisogno di oltre 1,2 milioni di soldati (su una forza attiva totale di oltre 2 milioni) che dovrebbero essere trasportati su molte migliaia di navi”, e al momento “semplicemente manca la capacità militare e la capacità di lanciare un’invasione anfibia su vasta scala di Taiwan nel prossimo futuro”.
Proprio alla luce di questi dati, abbastanza incontrovertibili, molti analisti e strateghi escludono che la guerra della Cina per Taiwan possa trasformarsi in una invasione sul modello D-Day. Un’operazione del genere, in un’isola come quella di Taipei, sarebbe un rischio eccessivo anche per un Paese dalle risorse umano sconfinate come l’Impero di Mezzo. Nessuna delle due forze si è mai palesata in tutta la propria potenza di fuoco e capacità tecnologica. E gli alleati del Pacifico potrebbero essere decisivi. Per adesso, i report del Pentagono confermano una marina cinese più orientata sullo sviluppo di capacità operative per missioni in acque profonde e ridotte nei numeri. Indicazioni su aumento delle navi da sbarco ed esercitazioni in tal senso non sembrano ancora essere all’ordine del giorno ed è plausibile che un attacco avvenga dall’aria oppure, via mare, attraverso un blocco asfissiante.
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