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Francia vs Macron: la maggioranza silenziosa può “colpire” ancora?

Durante il maggio francese Emmanuel Macron non era ancora nato. In Francia, la mescola fra i diversi movimenti di estrema sinistra-che coniugavano il tradizionale impegno con forme nuove di lotta antiautoritaria- fece del quartiere latino di Parigi il teatro di una prolungata e violenta guerriglia urbana che vide contrapposti studenti e forze di polizia. Il movimento riuscì a unire nell’opposizione al regime gollista le varie forme di dissenso, tuttavia il generale de Gaulle, mobilitando l’opinione pubblica moderata-quella che passò col nome di “maggioranza silenziosa“, finì per ottenere un vistoso successo nelle elezioni del mese successivo, riuscendo perfino a placare il movimento studentesco con una riforma universitaria di segno efficientista. I gruppi di obbedienza gollista mantennero salda la guida del governo anche quando De Gaulle si dimise nell’agosto del 1969, sconfitto assieme alla sua riforma amministrativa sottoposta a referendum.

La crisi del macronismo e la violenza del movimento

Mutatis mutandis, la Francia alle fiamme degli ultimi giorni sembra richiamare alla memoria quei mesi, sebbene le differenze siano numerose. La più banale: Macron non è de Gaulle. Il suo indice di popolarità è crollato di sei punti in un mese, con appena il 28% di opinioni favorevoli. Per il presidente più giovane della storia francese, posto in queste settimane dinanzi a una durissima contestazione in Parlamento e nelle piazze contro la riforma delle pensioni, si tratta del livello più basso mai raggiunto dal novembre 2018, all’inizio della crisi dei gilet gialli che segnò il suo primo mandato all’Eliseo. In calo di due punti anche la premier, Elisabeth Borne, al 28%, il peggior risultato dal suo insediamento alla guida del governo a maggio. Ma soprattutto, la Francia dei gilets jaunes, prima, e di questi giorni, poi, non è quella del 1968. A legare, tuttavia, in un unico file rouge queste due grandi stagioni di proteste la trasversalità dei movimenti (con prevalenza dei movimenti non organizzati) ma soprattutto – mezzo secolo dopo – l’esplosione della violenza come strumento di lotta politica.

Non a caso il capopolo delle proteste di questi giorni è tale Olivier Mateu, sostenitore di un “sindacalismo da combattimento” contro il “sindacalismo d’accompagnamento” del capitalismo. Lo stesso che nello scorso autunno presenteva così le sue credenziali, in occasione delle proteste contro il caro-vita: “siamo andati a incontrare il prefetto. E gli abbiamo detto: ‘Alla prima precettazione, scatta la guerra. Se toccate un compagno in una raffineria, diamo fuoco al dipartimento. Ma non nel senso che ci innervosiamo. Incendiamo veramente tutto, con le fiamme vere.

Il rischio? Il medesimo. Il generale De Gaulle non seppe a pieno comprendere la portata generazionale e storica delle proteste francesi (e internazionali): ne fu prova la sparizione per raggiungere nottetempo Baden Baden dove avevano sede le truppe francesi occupanti, sotto il comando del Generale Massu per garantirsi l’appoggio dell’Esercito se le cose si fossero messe male. Ma al netto di ciò fu proprio il gollismo preso alla sprovvista dalle proteste che fece da leva sulla maggioranza silenziosa. Ed in tempi duri per la democrazia non è detto che la paura di vedere il Paese a ferro e fuoco possa nuovamente mobilitare tutti coloro i quali, soddisfatti o meno delle scelte della Nazione, voterebbero sempre e comunque per la “sicurezza, la disciplina”.

La “maggioranza silenziosa” oggi

Di chi si tratterebbe, in questo caso? Di un ceto medio tendenzialmente conservatore con un’età superiore a quella pensionabile che vive troppo lontano dai grandi centri oppure così vicino al cuore ricco delle grandi città francesi. Fra questi, file di macronisti, pentiti e non. Ma la “maggioranza silenziosa” è anch’essa mutata nel tempo, in Francia come altrove; alcuni dei suoi accoliti hanno ingrossato le file dei movimenti populisti e dei partiti sovranisti che chiedono Legge e Ordine. Già due anni fa, in occasione delle elezioni regionali, la stampa francese aveva tirato in ballo la maggioranza silenziosa, che in quella tornata elettorale rigettò sia il macronismo che il lepenismo. A livello nazionale, i risultati furono una debacle per i candidati allineati con Macron, le cui liste raschiarono appena l’11%. Le cose andarono ugualmente male per la Le Pen, le cui speranze di guidare il voto in numerose regioni andarono andarono a vuoto. Nel 2022 per Macron ancora diluvio. Questa è forse la principale differenza con il 1968: all’epoca la maggioranza silenziosa era con de Gaulle, oggi si divide in più ramificazioni e nelle ultime tornate elettorali ha punito ripetutamente l’ex enfant prodige d’Europa all’Eliseo.

La prova del nove per il caos di questi giorni? Il percorso della legge stessa sulle pensioni. Entro il 20 aprile il Conseil Constitutionnel dovrà esprimersi sui ricorsi presentati dalle opposizioni contro il progetto di legge. Quindi, se la Corte riterrà legittima la relativa richiesta, potrebbe aprirsi la strada del referendum. È una sfida complicata. Dopo essere stata presentata almeno dalla soglia minima di 185 tra deputati e senatori, la richiesta di référendum d’initiative partagée dovrebbe essere sottoscritta entro nove mesi da un decimo degli elettori, quasi cinque milioni di francesi. Un tentativo messo in campo già sei volte in passato nella storia del Paese e che non ha mai avuto successo.

Nel frattempo, da Parigi, il portavoce del governo Olivier Veran, che è anche ministro per la democrazia annuncia: “Ora proviamo a migliorare il potere d’acquisto” dei cittadini. Obiettivo: “Calmare la situazione”. Di elezioni in vista, come nel 1968, non ce ne sono. Resta però un presidente senza maggioranza, che ha davanti a sé quattro anni duri, durissimi anche se barricate si placassero domani.

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