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Federico Fellini, il neologista del cinema italiano

Roma, 8 apr – Ariminum è una colonia latina fondata nel 268 a.C. lungo la foce del fiume Marecchia. Dal ponte di Tiberio all’arco di Augusto c’è un solo chilometro in linea d’aria: entrambi costruiti in pietra d’Istria, rispettivamente punto d’inizio della Via Emilia e termine della Flaminia. I due monumenti sono collegati dal corso principale della ridente cittadina rivierasca. Nel mezzo di questa piacevole camminata tra le due opere romane troviamo ancora oggi il cinema Fulgor, ossia il luogo dove scoccò la scintilla tra Federico Fellini e la settima arte. Dici Rimini e pensi al genio del regista. Il quale, con le sue diciannove produzioni, ha segnato anche una piccola parte della lingua che fu di Dante e D’Annunzio.

Capolavori e premi Oscar

Per quanto ci possa annoiare tutta la retorica delle “giornate mondiali”, quella dedicata al cinema italiano (20 gennaio) coincide con la data di nascita del famoso regista. Il motivo? È presto detto. L’onirico maestro di quella che a tutti gli effetti è una nostra eccellenza – all’Academy Award siamo il paese che ha vinto più statuette per il miglior film straniero – è stato cinque volte Premio Oscar. Prima del quinto, ossia quello alla carriera (1993), contiamo i riconoscimenti per i capolavori La strada, Le notti di Cabiria, e Amarcord – quest’ultimo conseguito esattamente quarantotto anni fa.

Non è questa però la sede per parlare delle pellicole, già troppo inchiostro utilizzato in tal senso. Per sua stessa ammissione infatti, Fellini lavorava ai film nella stessa maniera con cui poteva vivere il sogno. Sempre per dirla con il romagnolo: eccessive spiegazioni avrebbero reso insipido l’affascinante. D’altronde misteri e allusioni fanno intrinsecamente parte del mondo felliniano, un ambito influenzato anche dal pensatore Julius Evola (si veda in merito l’interessante approfondimento di Alfonso Piscitelli uscito sul nostro mensile nell’aprile 2020).

Dai vitelloni ad Amarcord

Altro aspetto poco conosciuto è il fatto che Fellini sia entrato nel nostro linguaggio quotidiano. Non a caso abbiamo citato in apertura il sommo poeta insieme al Vate: seppur con una portata minore rispetto agli illustri predecessori, lo sceneggiatore rientra infatti nella ristretta cerchia dei neologisti italiani. Particolare ancora più importante se si pensa che da diverso tempo il Belpaese va lessicalmente impoverendo: a fronte di centocinquantamila vocaboli, il 95% dei connazionali ne utilizza solamente cinquemila.

Dal termine vitellone – reso famoso dalla commedia con protagonista Alberto Sordi – ad amarcord, espressione presa in prestito dal dialetto romagnolo che ancora oggi ci fa rievocare le nostalgie del passato. Ma anche paparazzo e dolce vita. Provenienti dallo stesso film del 1960 il primo è il cognome di un personaggio diventato poi definizione di fotografo intraprendente e spregiudicato. Il secondo – titolo dell’iconica opera – sinonimo di benessere, mondanità, e spensieratezza. Con ogni probabilità il film dona il proprio nome anche all’omonimo capo d’abbigliamento. Senza dimenticare poi l’usuale (in particolar modo quando si parla di calcio) bidone.

L’arma più forte

Ha raccontato diverse sfaccettature della nostra società, criticando a suo modo quell’essere borghese che tanto ha contraddistinto l’italiano di ieri quanto identifica – con la sua “vuotezza interiore che sconforta” – quello di oggi. Cresciuto disegnando caricature e vignette, Fellini si è formato lavorativamente – collaborando anche con l’EIAR – proprio nel periodo in cui la cinematografia era considerata l’arma più forte. Nel secondo dopoguerra ha saputo utilizzarla al meglio per dare nuova linfa al genio italico.

Marco Battistini

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