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Delitti, detenuti e pene: l'Italia sta messa peggio del Kenya – Il Riformista

La ricerca dell’Università di Oxford

Sergio D’Elia — 17 Febbraio 2023

Delitti, detenuti e pene: l’Italia sta messa peggio del Kenya

La terribilità e la certezza della pena non possono costituire un deterrente, se neanche i condannati sanno cosa prevede il codice penale. È questa la conclusione di una ricerca condotta in Kenya nel 2022 tra i prigionieri del braccio della morte. Lo studio s’intitola “Vivere con una condanna a morte in Kenya…”, è stato commissionato dal Death Penalty Project del Regno Unito e dalla National Commission on Human Rights (KNCHR) del Kenya ed è stato condotto da Carolyn Hoyle e Lucrezia Rizzelli dell’Università di Oxford.

Le due ricercatrici hanno intervistato 671 persone, di cui 33 donne, detenute nel braccio della morte in 12 carceri del Paese. Il 44% del totale era condannato per omicidio, il 56% per rapina violenta. Secondo lo studio, solo un detenuto su cento sapeva che la pena di morte era una punizione prevedibile per il reato commesso. Inoltre, ha rilevato la ricerca, nel braccio più duro e isolato del carcere non erano reclusi i più pericolosi e i peggiori tra i peggiori. Lo studio è stato condotto in Kenya. Fosse stato fatto in Italia, i numeri non sarebbero stati diversi. La ricerca ha riguardato la pena di morte. Fosse stata la pena fino alla morte, il risultato non sarebbe cambiato. I detenuti intervistati erano tutti nel braccio della morte. Fossero stati detenuti al 41 bis, le risposte sarebbero state le stesse. Quindi, continua a leggere questo articolo e dove vedi scritto Kenya puoi anche tradurre Italia. Dove è scritto “pena di morte” leggi pure “pena fino alla morte”. Dove è scritto “braccio della morte” pensa al “41 bis”.

Molti detenuti nelle carceri keniote hanno affermato che gli sono stati negati i diritti che dovrebbero essere garantiti a tutti gli indagati e imputati di un reato, come il diritto a non essere costretti a fare una confessione. Più della metà non ha potuto comunicare con un avvocato. Il diritto al silenzio di poco meno della metà non è stato rispettato. Oltre la metà ha dichiarato di essere stata sottoposta a forme psicologiche di tortura, più di un terzo (37%) ad abusi fisici e a quasi un quarto (23%) è stata negata l’assistenza medica. In condizioni coercitive di detenzione, molti potrebbero quindi aver rilasciato dichiarazioni incriminanti su sé stessi. È quasi scontato che le prove ottenute in questo modo dalla polizia siano inaffidabili, abbiano portato a condanne errate nei tribunali e persone innocenti nel braccio della morte.

Per quanto riguarda il luogo comune sul valore deterrente della pena, i dati della ricerca non lasciano margini a dubbi: mancano i presupposti necessari. Per essere scoraggiati dalla pena di morte, le persone devono sapere che la pena di morte è la punizione prevista per il loro reato. E devono sapere anche che è probabile che saranno giudicate colpevoli e condannate a morte. Quindi, devono essere consapevoli che gli eventuali vantaggi derivanti dal crimine possono essere vanificati dal potenziale castigo. Invece, secondo la rilevazione effettuata nel braccio della morte, solo l’uno per cento dei detenuti intervistati ha detto di essere stato a piena conoscenza prima del crimine che la pena di morte era una punizione a disposizione dei tutori della legge. E solo il quattro per cento dei condannati per rapina e l’otto per cento per omicidio avevano pensato alla possibilità di essere condannati a morte. Se non erano certi di correre questo rischio, come potevano essere scoraggiati da una pena che sarebbe arrivata inesorabile e certa come la morte.

Uno può pensare che la legge del taglione sia giustificata per i colpevoli più atroci e contemplata per i reati più gravi. Invece, la ricerca dell’Università di Oxford mostra che coloro che sono nel braccio della morte del Kenya non sono necessariamente i peggiori dei peggiori, perché oltre la metà di loro era stata condannata per un reato non mortale. Quasi tutti avevano poca o nessuna istruzione di base ed erano di basso status sociale ed economico – i più svantaggiati e vulnerabili. Di conseguenza, si sono trovati invischiati in un sistema di giustizia penale che chiaramente offriva una protezione legale inadeguata, esponendoli a un alto rischio di essere condannati ingiustamente. Se ciò è molto preoccupante in uno Stato che mantiene la pena di morte, non è meno preoccupante in uno Stato che prevede la pena fino alla morte.

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