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Dal Covid al commercio: decolla la guerra fredda tra Ue e Cina

Chi avrebbe mai pensato che l’allentamento delle politiche sanitarie della Cina sulla gestione del Covid potesse generare nuove tensioni tra l’Unione europea e Pechino? Da quando il gigante asiatico ha annunciato l’archiviazione della Zero Covid Policy, e dunque dei test a tappeto, delle lunghe ed estenuanti quarantene e dei confini sigillati, sia in entrata che in uscita, si è subito accesa una polemica sui viaggiatori provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese diretti in Europa.

Dal punto di vista scientifico è giusto che questi viaggiatori siano sottoposti a test di controllo e tamponi, onde evitare che qualcuno di loro possa inavvertitamente portare in Europa una variante inedita, generatasi in Cina a causa dei numerosi contagi presenti oltre la Muraglia? L’Italia è stato il primo Paese europeo a sollevare la questione, chiedendo un tampone obbligatorio ai viaggiatori provenienti dalla Cina.

Dopo giorni di polemiche e lunghe discussioni, il meccanismo integrato europeo per la risposta alle crisi (Ipcr), ha “fortemente incoraggiato” gli Stati membri dell’Ue a introdurre controlli per i viaggiatori in arrivo dalla Cina, in particolare richiedendo un test negativo per il Covid-19 da effettuare non più di 48 ore prima della partenza per l’Europa.

Tamponi e test Covid

Certo, le decisioni sui controlli alle frontiere restano una prerogativa delle varie autorità nazionali. Bruxelles ha spinto affinché tutti i Paesi concordassero una serie uniforme di misure per far fronte alla situazione ma la situazione è ancora a macchia di leopardo. C’è una raccomandazione in atto sull’introduzione dell’obbligo di tampone e test negativo per chi arriva e parte dalla Cina, ma niente che possa ancora costringere l’intera Unione europea a sposare lo stesso modus operandi.

E così, mentre Francia, Italia e Spagna proseguiranno con i controlli indipendenti sugli arrivi dalla Cina, c’è chi, come la Germania, preferirebbe adottare un controllo capace di monitorare le eventuali varianti in tutto il territorio europeo, più che effettuare test sui singoli passeggeri.

In ogni caso, i Paesi membri sono “fortemente incoraggiati” a introdurre requisiti per test pre-partenza negativi 48 ore prima di lasciare la Cina, nonché “incoraggiati” a testare in modo casuale i passeggeri in arrivo dalla Cina e a sequenziare i risultati positivi. Gli stessi, sono anche “incoraggiati” a testare e sequenziare campioni di acque reflue provenienti da aeroporti e aerei dalla Cina e a promuovere campagne di condivisione di vaccini e immunizzazione. Nel frattempo Pechino ha avvertito che qualsiasi restrizione sui viaggiatori provenienti dal Paese è “inaccettabile” e potrebbe provocare “contromisure“. 

Il nodo del commercio

C’è poi il grande tema commerciale. Come ha sottolineato Politico, la Commissione europea ha promesso nel suo programma di lavoro 2023 di “esaminare se saranno necessari strumenti aggiuntivi rispetto ai controlli degli investimenti strategici in uscita”.

Detto altrimenti, l’Europa dovrebbe controllare come le aziende europee spendono i loro soldi all’estero (soprattutto, ad esempio, se un produttore di chip europeo volesse acquistare azioni di una startup cinese o costruire una nuova fabbrica in Cina)? In seguito alla guerra in Ucraina, l’Ue ha iniziato a ragionare su come commerciare a stretto contatto con Paesi come Russia o Cina, senza compromettere la sua sicurezza.

In Germania, l’idea di questo screening nasce da una richiesta dei Verdi, al governo e partito responsabile dei Ministeri degli affari esteri e dell’economia. “Stiamo esaminando la creazione di una base legale per il controllo degli investimenti stranieri da parte di società tedesche ed europee in aree critiche per la sicurezza”, si legge una bozza della China Strategy del Ministero degli Esteri tedesco. Berlino ha già adottato misure del genere per influenzare le scelte di investimento all’estero delle sue società, annunciando, lo scorso anno, di non garantire più gli investimenti tedeschi nella regione occidentale cinese dello Xinjiang.

L’Europa si trova invece ancora in fase embrionale e deve definire le potenziali regole di controllo degli investimenti in uscita. Non è tuttavia da escludere che un primo blocco possa iniziare con la richiesta di mettere sotto esame un piccolo pool di settori critici per la sicurezza.

Ricordiamo che l’idea che gli stati controllino il modo in cui le aziende spendono i loro soldi all’estero è emersa per la prima volta dall’altra parte dell’Atlantico, a Washington. E non è un caso che gli Stati Uniti siano sempre più impegnati a disaccoppiare la loro economia da quella cinese. Un chiaro messaggio che la Casa Bianca ha indirettamente inviato anche a Bruxelles.

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