(Tiro, Libano) La Croce Rossa di Tiro non ha mai ricevuto così tante richieste di aiuto. Prima si avvicinavano al loro centro circa un migliaio di persone al mese: in larga parte gli strati più poveri della città e dei sobborghi vicini. Ora, come raccontano i rappresentanti del centro, le cose sono nettamente peggiorate. Sono infatti circa 15mila le persone che ogni mese chiedono soccorso alla Croce Rossa. Libanesi, in larga parte, di ogni appartenenza, ma anche palestinesi e rifugiati siriani dai campi profughi. Arrivano nel centro vicino al lungomare con ogni tipo di richiesta. Latte per i bambini, cibo, addirittura soldi. Molti provano a ricevere cure per le quali sarebbe necessario il ricovero in ospedale. “Si sopravvive grazie agli aiuti internazionali, specie dell’International Medical Corps”, raccontano, “lo Stato non fornisce aiuti e sono loro spesso a pagare i dottori e i medicinali”.
La crisi che flagella il Paese diventa quindi una terribile manovra a tenaglia. Da un lato debilita lo Stato, che non può pagare i medici, mantenere in piedi un sistema efficiente di ospedali né sostenere le organizzazioni. Dall’altro lato, la crisi porta con sé l’aumento delle richieste di aiuto e anche di nuove o vecchie patologie che sopraggiungono con le pessime condizioni di vita. Il colera, raccontano, è già apparso in alcuni campi profughi siriani.
Non va meglio nel settore scolastico: pilastro per qualsiasi Paese che voglia avere non solo un presente, ma anche, se non soprattutto, un futuro. Gli istituti pubblici sono praticamente fermi da mesi, complice una crisi che rende impossibile anche solo il tragitto che gli insegnanti devono fare da casa a scuola. Lo stesso vale per i bambini, i cui genitori non riescono spesso a permettersi i soldi per la benzina. Si salvano poche scuole private. Ma anch’esse iniziano a pagare il fatto che l’abisso economico del Libano sta erodendo anche il potere d’acquisto della classe medio-alta, quella che preferisce inviare i figli in questi istituti. Un’insegnante che lavora al Mosan Centre, centro specializzato nel sostegno ai bambini e giovani adulti “con esigenze e bisogni di apprendimento speciali” ci racconta che il suo stipendio si aggira ormai intorno ai 20 euro al mese. In sostanza, un lavoro che si è trasformato in volontariato.
L’ente, nato 30 anni fa per aiutare i bambini con disabilità, si regge sulle donazioni private e sull’impegno di volontari e lavoratori che non vogliono abbandonare al proprio destino i figli che il Libano non riesce a proteggere né a educare. I militari di Unifil fanno spesso visita al Mosan fornendo gli aiuti necessari a migliorare la qualità di vita dei suoi ospiti. Una panetteria che sforna ogni giorno dell’ottimo pane conferma che il lavoro continua e la comunità resiste. Gli stessi caschi blu italiani hanno spesso donato beni di prima necessità alla struttura, aprendo anche le porte della base di Shama ai ragazzi che lavorano nel centro come simbolo della costante cooperazione tra militari Unifil e popolazione. Un aiuto che però rischia di non essere sufficiente senza che Beirut riesca a risollevarsi dall’abisso finanziario in cui è caduta, e che sta rapidamente cancellando il sistema sociale e infrastrutturale già fragile del Paese.
Se i casi particolari servono ad avere un’immagine concreta della situazione che vive il Paese, quantomeno a Tiro e nella parte meridionale, sono i dati macroeconomici a confermare il baratro libanese. Da anni il Paese dei cedri non riesce a risollevarsi dal default tecnico. La miseria è ormai dilagante. Una buona parte della popolazione vive delle rimesse degli emigrati e si assiste a un forte aumento delle fasce di libanesi che vivono sotto la soglia di povertà. La lira libanese perde valore di giorno in giorno, al punto che si è deciso di mostrare anche il valore dei beni in dollari. Alcuni canali Telegram indicano quotidianamente il valore delle lire in confronto alle moneta Usa.
Fonti diplomatiche fanno sapere che ormai anche l’accordo con il Fondo Monetario Internazionale rischia di essere inefficace. La paralisi politica, infatti, non permette l’approvazione del piano. Tuttavia, più passa il tempo e più la crisi aumenta, così che quel piano diminuisce la sua portata. Alla crisi sistemica, si è aggiunta la doppia tenaglia del coronavirus prima e dell’esplosione del porto di Beirut poi. Come ricorda l’agenzia Ice, Banca mondiale, Onu e Unione europea hanno valutato i danni causati dall’esplosione di Beirut tra i 3,8 e i 4,6 miliardi di dollari, cui si devono aggiungere i miliardi persi per il crollo della produzione nei settori economici più direttamente colpiti dalla deflagrazione e dai problemi al porto.
L’emergenza economica e umanitaria si riversa anche sulla possibilità che aumentino i traffici illegali, compresi i flussi migratori irregolari diretti verso l’Europa. Al momento, spiegano persone a conoscenza del dossier, non è ancora possibile parlare di un boom dell’emigrazione clandestina. Tuttavia, alcuni elementi confermano che il rischio esiste, soprattutto perché si uniscono più fattori. Il primo è la presenza di milioni di rifugiati siriani nei campi profughi, di cui molti non sono più registrati ufficialmente in territorio libanese. Il secondo è la povertà che imperversa in tutta la popolazione, e che impatta anche sulle comunità palestinesi presenti da decenni nel Paese. Infine, le fonti sottolineano che Beirut non è attrezzata a gestire e capire un fenomeno nuovo, dovendo fare i conti anche con l’estrema difficoltà di uno Stato in default e senza adeguate strutture e controllo del territorio.
Questo potenziale bacino migratorio composito e impoverito rischia di alimentare la corsa all’Europa per vie illegali, mentre sono tanti i libanesi che ingrossano le file della diaspora attraverso un’emigrazione regolare ma costante.
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