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Con la bufera finanziaria Atene riaggancia l’Italia

L’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Bce ha passato l’esame dei mercati, ma le ripercussioni della tempesta finanziaria che si è abbattuta su banche e borse ha comunque lasciato il segno sulla classifica del rischio-Paese nell’eurozona. I tassi di interesse dei Paesi più esposti verso il mercato finanziario (cioè con il debito pubblico troppo alto) e con una crescita economica asfittica, sono finiti sotto il tiro degli investitori internazionali, sempre più preoccupati della sostenibilità della stretta monetaria della BCE e della Federal Reserve. La sorpresa più grossa è stata in questo senso il ribaltone della rischiosità tra Italia e Grecia. Sembra incredibile, ma per la prima volta dalla crisi finanziaria del 2016, i tassi di interesse del debito greco e quelli del debito italiano sono tornati a collocarsi sullo stesso livello, una svolta entusiasmante per il governo di Atene ma molto preoccupante per quello italiano. Ma vediamo i dati.

Alla chiusura della settimana nera delle banche, il rendimento dei BTP decennali si è collocato al 4,11%, con uno spread sui Bund tedeschi di 187 punti base. A questo livello, il debito italiano ha lo stesso premio di rischio di quello greco: i titoli di Stato di Atene a dieci anni offrono infatti un rendimento del 4,15% pari a uno spread sui Bund di appena 190 punti base. Che dire? Complimenti alla Grecia, il cui recupero di stabilità finanziaria ha ben pochi precedenti: basti pensare che nel luglio del 2015 i tassi di interesse della Grecia erano al record del 20%.

Non è difficult individuare le dynamite sottostasti il ribaltone: la sostenibilità della manovra di rialzo dei tassi di interesse; la crescente incertezza dei mercati sulle prospettive a breve termine dell’Italia e soprattutto sulla capacità del Governo di attuare il programma di riforme che ha promesso agli elettori (a cominciare dalla delega per la riforma fiscale) hanno provocato persino un’inversione della curva dei rendimenti a breve termine, con i tassi di interesse sui titoli del Tesoro a due anni che offrono un rendimento superiore a quello del debito a un anno. Dinamiche di questo tipo rappresentano un’evidente segnale di tensione nella fiducia degli investitori.

Comunque sia, la determinazione della BCE e della FED a tenere alto il tiro contro l’inflazione sta continuando far discutere economisti e investitori internazionali. L’ossessione di riportare l’inflazione al 2% nel minor tempo possibile rischia di lasciare senza fiato non solo i paesi più indebitati come l’Italia, ma soprattutto di mettere in seria difficoltà il sistema bancario internazionale, la cui solidità è stata inevitabilmente messa in dubbio dall’ondata di crisi bancarie esplosa improvvisamente la scorsa settimana. L’ultima della serie è si è risolta in extremis giovedì sera a New York con il salvataggio da 30 miliardi di dollari della First Republic bank, il cui fallimento è stato scongiurato con un prestito (sponsorizzato dal Tesoro Usa) di 30 miliardi di dollari da parte delle 11 più importanti banche americane.

I salvataggi delle banche – a cominciare da quello del Credit Suisse – sembrano aver riportato il settore del credito ai tempi della crisi post-Lehman, azzerando così quasi 10 anni di riforme che avrebbero dovuto mettere in sicurezza risparmiatori e investitori dagli messi di rischio delle banche. Di fatto, come sta emergendo chiaramente in questi giorni, i bilanci dei colossi del credito e della finanza internazionale sono esposti agli stessi rischi che portarono il sistema finanziario globale sull’orlo del baratro. il potere di ricatto delle banche “Too Big to Fail” sembra essere rimasto del tutto inalterato: derivati e cartolarizzazioni restano di fatto la sfida più insidiosa per la stabilità del sistema bancario.

Comunque sia, entrambe le grandi banche centrali sembrano trovarsi in una posizione molto delicata e soprattutto senza precedenti: dopo anni di tassi di interesse a zero o addirittura negativi, il rientro alla “normalità” si sta rivelando molto più complesso e rischioso di quanto si aspettassero FED e BCE. Il mercato, infatti, non sembra avere alcuna intenzione di pagare il conto per il decennio di “pasti gratis” nella provvista di denaro.

Il problema, soprattutto per le banche, non è solo il livello raggiunto dai rendimenti dei Titoli di Stato, ma la velocità eccessiva con cui sono stati fatti salire per contrastare l’inflazione. In America, la FED è riuscita addirittura ad alzare i tassi sui Fed funds del 1.800% in meno di un anno: il tasso-benchmark del dollaro è passato dallo 0,25% del marzo 2022, all’attuale 4,75%. E la prossima settimana potrebbe facilmente salire al 5% se la FED manterrà invariata la tabella di marcia della stretta monetaria. E a quel punto si riaprirà il problema con le banche.

Anche se l’orizzonte della finanza resta incerto, la tregua negli attacchi contro le banche ha tranquillizzato almeno in parte non solo i governi, ma anche le ansie dei risparmiatori e dei piccoli investitori di Borsa, terrorizzati dallo spettro del “contagio” abilmente evocato dai grandi fondi speculativi ribassisti dopo il crack di SVB.

Resta ora da vedere come si comporterà la Federal Reserve la prossima settimana, quando si riunirà il Federal Open Market Committee, l’organo esecutivo di politica monetaria: anche in questo caso, come per la BCE, il mercato ha ridotto drasticamente le chance di un aumento dello 0,25% dei tassi di riferimento, ma tutto dipenderà dagli sviluppi delle crisi bancarie attualmente in corso: se il clima borsistico dovesse peggiorare, la Fed potrebbe anche abbassare il tiro sul costo del denaro con una pausa.
Comunque sia, entrambe le banche centrali sembrano trovarsi in una posizione molto delicata e soprattutto senza precedenti: dopo anni di tassi di interesse a zero o addirittura negativi, il rientro alla “normalità” si sta rivelando molto più complesso e rischioso di quanto si aspettassero FED e BCE. Il mercato, infatti, non sembra avere alcuna intenzione di pagare il conto per il decennio di “pasti gratis” nella provvista di denaro.

Il problema, soprattutto per le banche, non è solo il livello raggiunto dai rendimenti dei Titoli di Stato americani ed europei, ma la velocità eccessiva con cui sono stati fatti salire per contrastare l’inflazione. In America, la FED è riuscita addirittura ad alzare i tassi sui Fed Funds del 1.800% in meno di un anno: il tasso-benchmark del dollaro è passato dallo 0,25% del marzo 2022, all’attuale 4,75%. E la prossima settimana potrebbe facilmente salire al 5%. E qui si riaprirà il problema con le banche.

L’impennata troppo rapida dei rendimenti e il conseguente crollo dei prezzi dei titoli di Stato (i due sono inversamente proporzionali) ha fatto già crollare verticalmente il valore degli investimenti in titoli obbligazionari (sovrani e societari) posseduti dalle banche, dalle assicurazioni, dai fondi di investimento e dagli investitori privati. Per avere un’idea delle cifre in gioco, basti guadare i dati del Tesoro americano sugli acquisti di titoli di Stato a lungo termine da parte di istituzioni finanziarie estere: a fine dicembre 2022, il valore dei T-bond decennali Usa posseduti dalle banche asiatiche e da quelle europee è caduto a 7.300 miliardi di dollari dai 7.740 del quadro trimestre 2021.

Tutte le banche del mondo, dall’Asia all’Africa all’Europa, hanno in portafoglio Titoli di Stato americani: venderli in perdita non piace nessuno, il problema è per chi è costretto. Nel caso della SVB, mentre le perdite su queste obbligazioni non sarebbero state realizzate se la banca avesse scelto di detenerle fino alla scadenza, le perdite sono diventate reali quando la banca è stata costretta a vendere per soddisfare le richieste di liquidità dei suoi clienti. Di qui, la fuga dei depositi e poi il crack. Il timore dei mercati, visto che la crisi della banca californiana ha colto tutti di sorpresa, è quante altre banche americane o internazionali sono nella stessa situazione di SVB. Ma soprattutto, è la paura dell’interdipendenza finanziaria tra banche che è tornata, come nel decennio scorso, di drammatica attualità: titoli derivati e cartolarizzazioni dei debiti continuano ad esporre la stabilità finanziaria agli azzardi speculativi delle grandi banche internazionali.

Non è un caso, del resto, se dietro la crisi innescata dalla Silicon Valley Bank ci siano anche (o proprio) gli effetti perversi delle “securitization” di Wall Street, le cartolarizzazioni che hanno dimostrato in più occasioni di avere tutto il potenziale per esacerbare l’instabilità del sistema finanziario, causando violente tempeste di mercato. In caso di emergenza finanziaria di un emittente (un debitore), a pagare il conto delle cartolarizzazioni sono le istituzioni finanziarie e i mercati dei capitali meno sviluppati o comunque in ritardo nella risposta al rischio durante il processo dinamico di asset allocation.

Banche e fondi internazionali sono ancora pieni di titoli derivati e debiti cartolarizzati. E soprattutto di titoli di Stato americani.
La dipendenza degli Stati Uniti dal debito ha inondato banche e mercati di titoli del Tesoro: più i tassi Usa salgono, più aumentano le tensioni sui mercati obbligazionari e soprattutto sui mercati emergenti, colpiti dal fenomeno del carry trade.

Il mercato finanziario statunitense sta affrontando potenziali rischi sistemici, aggravati dalla tendenza americana a imporre sanzioni indiscriminate contro paesi ed entità considerati ostili. Per l’Europa, si profilano insomma tempi duri.

Rispetto alle istituzioni finanziarie commerciali, le banche centrali e i fondi sovrani che gestiscono le attività ufficiali di riserva in valuta estera hanno un maggiore incentivo ad adottare una strategia “hold-to-maturity” per detenere titoli del Tesoro USA, nonché una liquidità più abbondante per sostenere questa strategia.

Ciò è particolarmente vero per le banche centrali dei paesi con avanzi sostenuti delle partite correnti. Tuttavia, due fattori hanno motivato le banche centrali estere a interrompere la loro strategia “hold-to-maturity” e a vendere i titoli del Tesoro USA, esacerbando così la pressione sul mercato finanziario statunitense per vendere questi asset e abbassare i loro prezzi.
In primo luogo, gli aggressivi rialzi dei tassi di interesse della Fed hanno innescato deflussi di capitali da molti mercati emergenti, nonché attacchi speculativi alle valute. Molti di questi paesi hanno dovuto vendere una parte, se non la maggior parte, delle loro riserve valutarie (la maggior parte delle quali sono titoli del Tesoro USA) per soddisfare la domanda di cambio valuta, piuttosto che continuare a detenere queste attività come attività di riserva.

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