Cirillo, al secolo Vladimir Michajlovič Gundjaev, nasce nella fu Leningrado, l’odierna San Pietroburgo, il 20 novembre 1946. Cresciuto in una famiglia molto devota e legata formalmente alla Chiesa ortodossa, da generazioni, Gundjaev è figlio di un reverendo, fratello minore di un arcivescovo e nipote di un chierico, Vasilij Gundjaev, che fu imprigionato nel gulag di Soloveckij durante l’era staliniana per via dell’attivismo a favore della libertà religiosa e contro la chiesa-fantoccio dell’Ortodossia rinnovata (обновленческая церковь).
Nonostante l’ispirazione in casa, in quanto figlio, fratello e discendente di chierici, Gundjaev ha inizialmente altri piani e lavora come cartografo presso un ente geologico di Leningrado per tre anni, dal 1962 al 1965, prima di essere folgorato sulla via di Damasco. L’illuminazione è accecante: nel 1966, ventenne, Gundjaev abbandona l’esordiente carriera nella geologia per il Seminario di Leningrado. Da lì, più tardi, l’approdo nell’Accademia teologica di Leningrado, dalla quale si licenzierà con lode nel 1970.
Nel 1969, alla vigilia della fine degli studi, Gundjaev viene ufficialmente tonsurato nella Chiesa ortodossa russa col nome di Cirillo, in memoria di Cirillo il Filosofo, e ordinato prima ierodiacono e poi ieromonaco. Carismatico, preparato e ortodosso, nel senso letterale del termine, il giovane Cirillo è la scommessa dell’alta gerarchia. Lo dimostra il fatto che nel 1971, bruciando le tappe e stupefacendo i parigrado, viene elevato ad archimandrita in concomitanza con l’assunzione del ruolo di rappresentante della Chiesa ortodossa russa presso il Consiglio ecumenico delle chiese.
La scalata ai vertici della Chiesa ortodossa russa è inarrestabile. Nel 1977 diventa arcivescovo. Nel 1989 consolida la posizione di portavoce nel mondo della Chiesa, in quanto nominato presidente del Dipartimento per le relazioni esterne e membro permanente del Santo sinodo. Nel 1991 viene elevato a metropolita. Nel 1994, segno dell’influenza esercitata e della fiducia in lui riposta dai superiori, gli viene consentito di inaugurare un proprio programma televisivo, La parola del pastore, sul popolare Canale uno.
La scalata ai vertici della Chiesa ortodossa è rapida. Troppo rapida. Gli invidiosi lo accusano di ruffianeria. I maliziosi, un po’ più lungimiranti, pensano che sia in odore di complicità con gli apparati securitari, che possa essere un agente sotto copertura del KGB. La verità, forse, sta nel mezzo: Cirillo avrebbe fatto carriera perché ritenuto ossequioso dalla gerarchia e perché assoldato dal KGB, per conto del quale avrebbe operato come agente di influenza nel Consiglio ecumenico delle chiese – stando a documenti dell’Archivio federale svizzero.
Nel 2009, alla morte di Alessio II – anch’egli, a suo tempo, accusato di essere stato al soldo del KGB –, Cirillo è considerato dagli osservatori il candidato più papabile all’intronizzazione sul soglio del Patriarcato di Mosca e di tutte le Russie. Un pronostico profetico: l’insediamento al trono avviene con la benedizione di 508 votanti su 700.
Cirillo si rivela uno stacanovista. Trascorre il primo anno di pontificato a supervisionare una riforma della macchina amministrativa della Chiesa ortodossa russa, improntata sul binomio efficacia-efficienza, che sarebbe stata propedeutica alla trasformazione delle parrocchie in erogatori di welfare e alla successiva adozione di una strategia di internazionalizzazione.
La parola d’ordine dei primi anni di papato è riorganizzazione. Dopo la riforma strutturale degli organi amministrativi, è il turno del ritorno del Patriarcato di Mosca nello spazio postsovietico, dall’Ucraina all’Asia centrale, che avviene di pari passo con il consolidamento dell’intesa con il Cremlino. Cirillo, per Vladimir Putin, è colui che può riportare la Russia all’antico ruolo di Terza Roma. E Vladimir Putin, per Cirillo, è un “miracolo di Dio”.
Tra Cirillo e Putin, più che un rapporto di mera subordinazione, è un do ut des frequentemente vantaggioso per entrambi. Putin accontenta il redivivo Patriarcato di Mosca attraverso l’implementazione di politiche conservatrici, come la legge sulla propaganda gay, e l’erogazione generosa di danari agli istituti caritatevoli ortodossi e alle chiese, quando ricostruite e quando rinnovate. Cirillo appoggia le agende-chiave del Cremlino, dalla lotta all’inverno demografico alla politica estera, investendole di sacralità e fatalismo.
Più che il “papa di Putin”, come viene erroneamente (e dispregiativamente) ribattezzato da certa stampa, Cirillo è un patriarca politico. Nella consapevolezza di essere il pastore di una “chiesa a sovranità limitata”, come ognuno dei suoi predecessori, ha fatto della massimizzazione del profitto derivante dall’asse col Cremlino un obiettivo esistenziale. Memore di cosa è capace un potere ostile – le periodiche strette anticlericali durante lo Zarato, le persecuzioni durante l’età sovietica –, che ha preferito riverire anche nei momenti in cui avrebbe potuto/dovuto essere sfidato. E con orizzonte il Duemila inoltrato – la cristallizzazione del ritorno alla religiosità dei russi.
Nel 2022, all’indomani dell’invasione militare dell’Ucraina, la dispensazione di supporto ideologico al Cremlino, sotto forma di sermoni bellicistici, gli è valsa l’inserimento nell’elenco dei cittadini russi sanzionati da Canada e Regno Unito. Una campagna di sanzionamento alla quale avrebbe dovuto partecipare anche l’Eurocommissione, secondo indiscrezioni circolate nel maggio 2022, in seguito saltata a causa del veto del governo ungherese.
Erroneamente accusato dalla grande stampa occidentale di essere un ventriloquo e/o un propagandista del Cremlino, quando invece è il patriarca di una fede millenaria dotata di un corpo specifico di valori, convinzioni e dogmi, Cirillo ha, molto più semplicemente, una visione del mondo – e del ruolo che l’Ortodossia russa è chiamata a giocare – che combacia spesso, ma non sempre, con gli interessi della classe dirigente.
Estimatore di Putin, ma lo fu anche Benedetto XVI – che al presidente russo dedicò diverse righe, con tono simpatetico, nel libro-intervista Ultime conversazioni. Se la Russia è grande, la Chiesa ortodossa prospera. Se la Russia è vinta, la Chiesa ortodossa è moritura. Perciò Cirillo ha accettato di (ri)fare del Patriarcato di Mosca l’instrumentum regni del Cremlino, intravedendo nelle aspirazioni di grandezza del “miracolo di Dio” l’opportunità di ricristianizzare le masse russe e di trasformare l’Ortodossia russa in una forza diplomatica di rilievo globale.
Forte dell’appoggio di Mosca, bisognosa di un corpo diplomatico parallelo al quale delegare una parte del faldone della Transizione multipolare, Cirillo ha potenziato considerevolmente il Dipartimento per le relazioni esterne della Chiesa, i cui diplomatici in abito talare sono stati inviati in teatri-chiave per gli interessi nazionali, come Cina, Corea del Nord, Iran, Siria, Vaticano e Venezuela. Nel nome dell’evangelizzazione al verbo del multipolarismo.
Cirillo verrà ricordato come un patriarca divisivo, circondato da ombre e al centro di scandali, ma anche come colui che ha saputo capitalizzare le convergenze parallele con Putin, non a caso definito un “miracolo di Dio”, facendo di necessità virtù ovunque e comunque fosse possibile. L’Intesa cordiale tra Mosca e Pechino trasformata in un’occasione per intavolare un dialogo, anche con Pyongyang, sulla concessione di maggiori libertà agli ortodossi russi. Il patto tra Mosca e Vescovato di Roma utilizzato per ravvicinare ortodossi russi e cattolici, come rammentato da L’Avana 2016, nella speranza di fare fronte comune contro degli stessi nemici: dalla secolarizzazione al terrorismo. Il conservatorismo sociale di Russia Unita come mezzo per un fine: il disseppellimento del mito della Terza Roma.