Roma, 9 gen – La parola “Brasile” accompagnata all’espressione “guerra civile” ormai tiene banco da settimane. Su queste pagine, se ne era paventato il rischio già da prima delle elezioni presidenziali avvenute il 30 ottobre. Elezioni che hanno visto confrontarsi Jair Bolsonaro e Luiz Inacio Lula da Silva, portando alla presidenza il secondo. Qualsiasi esito, vista la spaccatura profondissima nel Paese sudamericano, avrebbe potuto provocare problemi enormi di pace civile. L’ultimo mese sembra, per ora, la concretizzazione di questo timore.
Da oltre un mese gli episodi di rivolta vengono definiti alla stregua di “Capitol Hill” in salsa carioca, nel senso che i manifestanti prendono di mira concretamente i luoghi delle istituzioni: in pieno dicembre, era avvenuto con la sede della polizia federale a Brasilia. Adesso gli attacchi sono ai massimi palazzi del potere: Corte suprema, presidenza, Congresso. Le forze dell’ordine brasiliane, che sono riuscite a riprendere il controllo di tutti gli edifici, hanno confermato un numero di arresti impressionante: circa 400, su qualche migliaio di manifestanti. Una percentuale enorme, ben indicativa della frustrazione e della tensione pazzesca che si respira in tutto il Paese.
Cosa fa Bolsonaro
L’ex presidente ora condanna su Twitter gli attacchi così, come riportato dall’Ansa: “Le manifestazioni pacifiche, secondo la legge, fanno parte della democrazia. I saccheggi e le invasioni di edifici pubblici come quelli di oggi, così come quelli praticati dalla sinistra nel 2013 e nel 2017, sono illegali”. Lula, dal canto suo, spara il classico “attacco fascista” casuale, ma si sa, la neolingua in questo è abbastanza diffusa.
Un Paese spaccato da divisioni, politiche, sociali ed economiche enormi
Che la bomba potesse esplodere era chiaro già da prima della sfida elettorale. Chiunque avesse prevalso tra i due contendenti, l’altra parte, quella sconfitta, difficilmente avrebbe accettato il risultato. Così è stato anche questa volta, con Bolsonaro trincerato nel silenzio dopo il voto. Un silenzio rotto dopo un paio di giorni, con il mancato riconoscimento della vittoria di Lula ma con una “accettazione della transizione” sostanzialmente priva di reale contenuto politico. Il presidente uscente aveva colto l’occasione per incitare pure eventuali manifestazioni di protesta. Le quali, puntualmente, sono arrivate nelle settimane e nei mesi successivi. Il Brasile è in costante fremito bellico da almeno dieci anni. Una nazione nel panico che, tra crisi economiche, disuguaglianze sociali e polarizzazioni estreme, non riesce a trovare un suo equilibrio.
Alberto Celletti
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