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Asia centrale, l'ultima trincea delle guerre irano-israeliane

La guerra fredda tra Israele e Iran è nata nell’alveo di quella tra Stati Uniti e Unione sovietica, ma le è sopravvissuta e non sembra conoscere l’erosione del tempo. Inizialmente circoscritta in Medioriente, culla di entrambe le nazioni, la rivalità ha poco alla volta assunto una dimensione globale. Europa, Africa, Latinoamerica, e persino Oceania – dove Hezbollah ricicla i proventi del traffico internazionale di stupefacenti –, non v’è palcoscenico che non sia stato toccato dalle guerre irano-israeliane. Che, con la dissoluzione dell’Unione sovietica, hanno gradualmente investito i paesi russofoni del Caucaso meridionale e dell’Asia centrale. Khomeini contro Herzl all’ombra del remake del Grande Gioco. Le guerre irano-israeliane dilagano nello spazio postsovietico. Prima circoscritte all’Azerbaigian, e successivamente approdate in Ucraina, sono ufficialmente approdate in Asia centrale nel 2023, al termine di un periodo di germogliazione iniziato nei primi anni Novanta. L’imperativo dell’accerchiamento contenitivo dell’Iran, con un occhio sempre puntato sulla Turchia, ha portato Israele nelle profondità dello spazio postsovietico. Strategia della quale abbiamo parlato con Marco Limburgo, docente di storia contemporanea e socio fondatore di Osservatorio Russia.

Dottor Limburgo, la cosiddetta “strategia delle alleanze periferiche” ha portato Israele a siglare intese con Paesi a esso distanti geograficamente, ma prossimi all’Iran, con l’obiettivo di costituire una sorta di cordone sanitario che accerchi Teheran e ne contenga al contempo l’espansionismo in Medioriente. Potrebbe parlarci delle origini e delle ragioni di questa strategia (se così può essere definita)?

Piu che di strategia io parlerei di dottrina. Le dottrine sono un insieme di convinzioni applicate per raggiungere un obiettivo. In questo senso, una dottrina di politica estera stabilisce delle metodiche su come portare a termine un intento di lunga durata. Una delle prime strategie politiche di Israele, quella delle “alleanze periferiche”, è stata concepita con l’obiettivo di instaurare relazioni con gli Stati non arabi. La dottrina è stata concepita dal primo ministro israeliano David Ben-Gurion e dal diplomatico Eliahu Sassoon nei primi e convulsi anni di statualità con l’obiettivo di superare il soffocamento dell’anello ostile delle minacce alla neonata nazione. A questo fine, bisognava stringere partenariati contro il “nucleo arabo”, inteso come la coalizione di Stati guidata dall’Egitto di Gamal Abdul Nasser. Candidati ideali erano Stati non arabi, o che ospitavano minoranze etniche o religiose molti influenti, come il Libano egemonizzato dai maroniti, la Turchia, l’Iran della dinastia Pahlavi, l’Etiopia, il Sudan, il Marocco, i curdi iracheni e via discorrendo. Il culmine della dottrina della periferia fu raggiunto già negli anni Cinquanta con la formazione di un’intesa trilaterale con Turchia e Iran. La dottrina è proseguita, tra alti e bassi, fino agli anni Ottanta quando la Rivoluzione iraniana, l’ascesa degli ayatollah pregiudizialmente ostili contro lo Stato ebraico e l’exploit islamista in Turchia hanno incrinato queste convergenze costringendo Israele a investire risorse alla ricerca di una pacificazione con gli stati arabi, poi in parte raggiunta, anche con l’obiettivo di archiviare la questione palestinese.

Qual è l’importanza dell’Azerbaigian nel contesto di suddetta strategia, o dottrina?

Nell’ottica della dottrina citata in precedenza, Baku costituisce un cardine imprescindibile. Quando si pensa alla relazione tra Israele e Azerbaigian non si può non citare la definizione che ne ha dato il presidente azero Ilham Aliyev: un rapporto “sommerso per nove decimi”. In qualità di partner dell’Azerbaigian, l’assistenza materiale che Israele ha fornito alle forze azere si è rivelata decisiva per il successo dell’offensiva nel Nagorno Karabakh del 2020. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, Israele ha fornito il 69% delle importazioni di armi di Baku dal 2016 al 2020, il 17% delle esportazioni di armi totali di Gerusalemme per un valore di quasi sette miliardi di dollari. L’elemento droni nell’ambito della cooperazione tecnico-militare è quello che colpisce di più, visto il massiccio utilizzo di questi apparecchi nel vittorioso conflitto. Nel contesto della rivalità tra Israele e Iran il rapporto dello Stato ebraico con l’Azerbaigian offre ai primi una profondità strategica rilevante. Stabilizzato il confine azero si rafforza la postura securitaria israeliana che nel Paese caucasico ha installato un ramificato sistema di sorveglianza nei confronti del confine iraniano. Non solo, nel 2016 l’Azerbaigian ha dato il permesso a Israele di usare i propri aeroporti come punto di partenza per eventuali raid contro le strutture nucleare iraniane. Come Israele ha a disposizione un punto di osservazione privilegiato, così l’Azerbaigian impiega sistemi di monitoraggio israeliani e, in cambio, entrambi i Paesi si passano informazioni sul nemico. Nemico condiviso, stante l’annosa questione della minoranza azera in Iran, che alletta le velleità irredentiste di Baku e, all’opposto, suscita preoccupazione nel vicino persiano. A coronamento di questa intesa bilaterale la decisione del parlamento azero, del 18 novembre 2022, di aprire un’ambasciata a Tel Aviv. Primo Paese a maggioranza sciita a compiere questa scelta. Uno smacco e un segnale diretto alla nemesi iraniana.

Ma è tutto oro quello che luccica? Ad esempio: che ne potrebbe essere dell’alleanza azero-israeliana se e quando venisse meno il “collante anti-iraniano”, anche alla luce dell’elevata influenza turca nel Paese?

L’intesa, nonostante sia apparentemente florida, ha delle criticità. In primis, il successo azero nel conflitto e l’ottenuta onnipotenza armata contro l’avversario armeno hanno reso meno essenziali le importazioni di armamenti dallo Stato ebraico, minando un pilastro nella relazione bilaterale a danno dell’industria della difesa israeliana. Successivamente, la vittoria azera ha permesso (e consolidato) il prepotente ingresso turco nella regione. Ankara, in piena fase assertiva, non solo ha saputo fare leva sulla comunanza culturale e linguistica con Baku ma ha iniziato a minare l’apparentemente inossidabile intesa in ambito tecnologico tra Baku e Gerusalemme sia con la cessione di droni turchi, i famigerati Bayraktar TB2, sia proponendo al partner caucasico intese di ampio respiro negli ambiti tecnologico, infrastrutturale e commerciale. La Turchia, seppur in fase di distensione con Israele, nutre interessi contrapposti in diversi settori strategici e geografici con lo Stato ebraico, basti pensare al Mediterraneo Orientale, e arriva a presentarsi come potenziale baluardo in chiave antipersiana. Nonostante le sfide, comunque, il partenariato è destinato a sopravvivere fino a quando persisterà l’Iran come avversario comune e non è escluso che possa restare in vita, seppur rimodulata, anche nel caso assistessimo ad una caduta degli ayatollah, data la volontà di Baku e di Gerusalemme di proiettare influenza rispettivamente nel Caucaso e nel Medioriente.

Il 2023 si è aperto con un annuncio che ha dello storico: Israele è in procinto di inaugurare un’ambasciata permanente in Turkmenistan, lo -stan col quale l’Iran condivide un confine di 1.148 chilometri e che è noto per una consolidata tradizione di neutralità alla svizzera. La risposta potrebbe sembrare ovvia, in effetti lo è, ma la domanda va posta ugualmente: perché?

Bisogna ammettere che la notizia ha un che di sorprendente, in quanto il Turkmenistan, distopica autocrazia centrasiatica solitamente misconosciuta, tranne che per le risibili stravaganze della dirigenza, non è avvezzo a dinamiche diplomatiche di così ampio respiro. La decisione di ospitare un’ambasciata israeliana, in un frangente temporale in cui stiamo assistendo allo scongelamento delle relazioni tra Israele ed ecumene musulmano, risponde a diverse dinamiche che avvantaggiano entrambi gli attori protagonisti. Ancora una volta, a rischio ridondanza, non si può non citare l’Iran, il “convitato di pietra” di ogni priorità geopolitica israeliana in Medio Oriente. L’inaugurazione dell’ambasciata, infatti, ha lo scopo di inviare un messaggio all’Iran: “Israele rappresenta una presenza stabile e in ascesa da tenere in considerazione nella regione”. Il Turkmenistan condivide un confine diretto con la repubblica teocratica e un’ambasciata situata nella sua capitale, Aşgabat, a soli dodici chilometri di distanza dal confine iraniano, rappresenterebbe un indubbio punto di appoggio e sorveglianza dei confini iraniani. Necessità urgente stante la quasi irreversibile decisione di Teheran di portare a termine il programma nucleare militare, inderogabile linea rossa di Gerusalemme, e stante l’importanza strategica del Turkmenistan. [In sintesi], la decisione di aprire qui l’ambasciata israeliana non giunge come un fulmine a ciel sereno, ma è il frutto di un lungo processo di seduzione della diplomazia israeliana nei confronti delle repubbliche dell’Asia Centrale.

Al di là della comunione di intenti in chiave anti-iraniana, cosa potrebbero e potranno effettivamente scambiarsi Israele e Turkmenistan? In pratica: Iran a parte, cos’ha Israele da offrire – di indispensabile o, comunque, di molto importante – al Turkmenistan e, in esteso, agli altri -stan?

Da un punto di vista diplomatico, Israele pare interessato a sfruttare la posizione dei paesi dell’Asia centrale nel mondo islamico, in particolare la loro appartenenza ai forum islamici, per preservare il recente exploit diplomatico ottenuto con gli accordi di Abramo e ridurre le possibilità che questi forum emettano decisioni ostili. Simile strategia Israele sta attuando in Africa. Il contrasto al terrorismo e alla diffusione dell’Islam radicale è un ulteriore dossier, longevo e stringente, che accomuna entrambe le cancellerie. Se da un lato Israele ha all’attivo un curriculum di contrasto all’islamismo nei territori occupati affinatosi da decenni di conflitto arabo-palestinese, il Turkmenistan (così com gli altri -stan) sta conoscendo un exploit dell’islamismo autoctono, foraggiato dall’oppressione governativa, dalle precarie condizioni economiche, dalla repressione e dalla porosità dei confini con l’instabile Afghanistan talebano. Il know how israeliano risulta quindi fondamentale. La natura totalitaria dei regimi dell’Asia centrale, necessitante un pervasivo controllo della cittadinanza e gestione del dissenso, ha contribuito ad aumentare la loro dipendenza dai software prodotti dalle società informatiche israeliane, come la NSO, famosa per aver sviluppato il programma Pegasus utilizzato nelle operazioni di intelligence. Sul piatto, infine, il modello Israele. In ambito agricolo, oltre che nei settori IT, dei trasporti e delle tecnologie, lo stato ebraico ha a disposizione un ampio ventaglio di prospettive allettanti per queste repubbliche alla ricerca di una diversificazione dalla dipendenza dai mercati e dagli investimenti russo-cinesi.

E per quanto riguarda le criticità del Pivot to Turkestan di Israele? Quali sono? E in che modo potrebbero ostacolare l’agenda regionale israeliana?

Come nel caso azero, nostante la presenza di evidenti elementi di mutuo interesse, gli ostacoli rischiano di superare le aspettative. Se uno degli obiettivi fondamentali della politica estera israeliana è il tentativo di assediare e isolare l’Iran, nonché di ridurre la sua capacità di continuare il suo programma nucleare, le contingenze rendono i paesi dell’Asia centrale poco disposti ad essere partner di Israele nel raggiungere questo scopo. Un insieme di pragmatismo, dipendenza economica, legami culturali, [sullo sfondo del]la rinnovata attenzione di Teheran in accordo con Mosca nei confronti dell’Asia Centrale, fanno sembrare le prospettive israeliane fin troppo ottimistiche. Sebbene il conflitto arabo-israeliano non sia stato uno dei fattori determinanti che hanno orientato le posizioni dei paesi centrasiatici nei confronti di Israele, e sebbene gli accordi di normalizzazione tra Israele e i paesi arabi incoraggino gli -stan a sviluppare relazioni con Israele, il futuro della relazione tra Israele e le repubbliche centrasiatiche risiede anche nella futura identità dello stato ebraico.

Quest’ultimo punto è estremamente interessante. Potrebbe approfondire?

La recente ascesa della destra sionista, a trazione colonica e ultraortodossa, rischia di far precipitare Israele in un baratro oltranzista e teocratico inasprendo conseguentemente il conflitto israelo-palestinese. A differenza dell’opinione pubblica azera, che è laica, quella centrasiatica è maggiormente sensibile nei confronti della questione palestinese, che, a sua volta, è correlata inequivocabilmente alla gestione dei Luoghi Santi. Inoltre, la crescente ingerenza dell’opinione pubblica nei processi di decision making rischia di compromettere il pluridecennale sforzo israeliano di penetrazione nella regione, indebolendo un fronte di non trascurabile importanza della dottrina delle alleanze periferiche.

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