In quasi dodici mesi di guerra, il grande dibattito che il conflitto ha alimentato ha riguardato, in primis, se inviare armi a Kiev oppure no. Al contempo, nel corso dei mesi, la disputa si è spostata sul fronte economico: quanto è sostenibile, infatti, il riarmo a oltranza? Questo ha aperto un secondo fronte della discussione, quello tra i sostenitori dello stop agli assegni in bianco e quelli del conto aperto ad libitum per Volodomyr Zelensky.
Ad oggi, tuttavia, la prospettiva sembra essersi impantanata meramente sul come e sul quanto: Leopard I o Leopard II, di nuova produzione o ricondizionati, venduti direttamente o inviati da secondi acquirenti. Stessa cosa dicasi per munizioni, missili o droni. Ed in Europa come nella Nato nessuna nuova iniziativa diplomatica-almeno alla luce del sole- sembra prendere forma, tantomeno alcun moto politico che non sia di solo di tipo difensivo: foraggiare lo sforzo di Kiev continua a sembrare la via più comoda in attesa degli eventi; o di un miracolo da parte di Recep Erdogan il mediatore, ora affossato dalla tragedia in patria.
L’Occidente che temporeggia
Ad ogni modo, per dodici mesi, il problema è stato spostato sull’Ucraina, e sulla sua fedeltà ai nostri valori. Ma fino a che punto è, invece, l’Occidente in grado di difendere i valori occidentali nell’est Europa? Sembra infatti spostarsi sempre più in là il momento in cui diventare maggiorenne e decidere cosa fare con la Russia di Putin: il problema, infatti, non è solo l’Ucraina. Se Putin dovesse mai vincere sul campo, il diritto internazionale ne uscirebbe con le ossa rotte, con il rischio che l’intera area ex-sovietica possa incendiarsi in virtù di un precedente. Per l’Europa significherebbe avere non una “sicura” cortina di ferro, ma un Oriente potenzialmente in fiamme dal Baltico fino ai Balcani.
Inquietante come un fantasma, in Europa si aggira poi l’ipotesi dell’incidente in altre aree altamente sensibili che corrono lungo l’antico limes. I missili russi che sorvolano i cieli di altri Paesi sono già un problema e un rischio gravissimo. Qualora dovessero tacere le armi, Mosca resterà una variabile impazzita ai confini dell’Europa pronta ad usare ancora la forza. Questo vale per Vladimir Putin e per i suoi sodali, e per chiunque dovesse prendere il potere qualora l’establishment moscovita implodesse: un’ipotesi ancora più fosca, forse, che l’Occidente avrebbe grande difficoltà a gestire, soprattutto se il futuro di Mosca andasse nelle mani di un Politburo composto da divise, oligarchi e nemici di Putin. Con questo stato di cose l’Europa e la Nato hanno scelto di non fare ancora i conti: farlo non significa necessariamente sganciare bombe su Mosca, ipotesi che qualsiasi persona dotata di buon senso e umanità rifuggirebbe. Ma tra l’ingaggiare una guerra aperta con la Russia e non fare nulla, foraggiando un Paese allo stremo è quantomeno una strategia molto ma molto miope.
La (dis)Unione Europea
Miope innanzitutto perché è già stato provato che la Nato non riesce più a star dietro a rifornimenti così assidui. Anche il “gioco” degli armamenti assume toni quasi grotteschi: un rimpiattino dove qualcuno manda avanti sempre qualcun altro nel rifornimento di velivoli o armi, e qualcun altro che invece vi si oppone in quanto produttore. Solo nelle ultime ore il governo svizzero ha riferito di aver respinto una richiesta della Spagna di consentirle di riesportare armi antiaeree di fabbricazione svizzera in Ucraina. Madrid aveva presentato il mese scorso la richiesta di consentire l’invio a Kiev di due cannoni antiaerei da 35 mm, fabbricati in Svizzera. In precedenza, era stato già posto il veto alle richieste di Danimarca e Germania, che volevano inviare veicoli blindati e munizioni di fabbricazione svizzera. Questo perché la legge svizzera non consente l’esportazione di materiale bellico se il paese di destinazione è coinvolto in un conflitto armato interno o internazionale. Poi ancora l’Ucraina, che ha presentato una richiesta ai Paesi Bassi per la fornitura di caccia F-16, confermata dalla ministra della Difesa olandese Kajsa Ollongren. Nel frattempo, dalle scrivanie europee un insolito effervescente Charles Michel che dichiara che “L’Ue e i suoi Stati membri sono al fianco dell’Ucraina e di tutti gli ucraini. E accelereranno ulteriormente la fornitura di equipaggiamento militare, compresa la difesa aerea”.
Sui famigerati Leopard, protagonisti di una catena da Fiera dell’est, le danze ancora non sono terminate. La Grecia considera i propri incedibili, per via dell’assertività di Ankara (la stessa nazione che dovrebbe fare da ago della bilancia); Lisbona accetta di addestrare gli ucraini, ma non cede sui propri mezzi; Varsavia invece incalza, tanto da dichiarare di voler dimezzare i tempi di addestramento delle milizie ucraine. Anche in questo caso la questione denuncia quanto il re sia nudo: la maggior parte dei Leopard “circolanti” in Europa sono degli scassoni che richiedono cifre assurde per essere ricondizionati. Mentre l’azienda tedesca che produce i Leopard II schizza nell’alto dei cieli della Borsa.
Nato e Ue, un sogno lontano per Kiev
Mentre Zelensky fa il tour d’Europa con il cappello in mano, il sogno resta sempre il medesimo: entrare sotto l’ombrello della Nato e dell’Ue, al fine di avere patron degni di fronteggiare la Russia. Il 17 giugno 2022 la Commissione europea ha pubblicato il proprio parere favorevole alla concessione dello status di candidato ufficiale all’Ucraina e alla Moldavia e il 23 giugno 2022 a Bruxelles il Consiglio europeo ha concesso lo status di candidato all’ingresso nell’Unione europea per questi due Stati. Hanno già avuto inizio i negoziati di adesione, nel quale gli eurodeputati hanno ribadito il loro impegno a favore dell’adesione dell’Ucraina all’Unione europea, sottolineando la necessità di un processo “meritocratico”. Il termine dice tutto: se Kiev sogna di entrare nell’Unione entro due anni, le dirigenze europee abbozzano sorrisi tirati: sanno che l’Ucraina è un Paese in guerra, la cui economia e struttura di governo non sono al livello degli altri Stati dell’Unione.
A questo si aggiunge il problema della corruzione: il governo ha scoperto uno scandalo di vasta portata, in grado di mettere in pericolo gli equilibri precari della catena di comando di Kiev. Sebbene Bruxelles, mai come in questa fase, non abbia la coscienza pulita, ha ancora la facoltà di pretendere da un Paese in via di adesione un pedigree immacolato. E se Kiev non può assicurarlo per un ginepraio di questioni antecedenti e che esulano dal conflitto, questo rappresenta un grande sollievo per l’Unione: prendere Kiev sotto la propria ala vuol dire fare del confine russo-ucraino, un confine tra Unione e Russia. Significherebbe entrare in guerra con Mosca o quantomeno essere in grado di far paura al Cremlino. E la disunione europea non è in grado di accollarsi una maturità politica del genere.
Dove vanno gli Stati Uniti?
Al di là dell’Atlantico le cose non sono così chiare. Se Joe Biden si prodiga in manifestazioni di vicinanza all’Ucraina con tanto di prolungamento degli stanziamenti a Kiev, la postura della Nato continua ad essere scomposta. Perché se Kiev si sente de facto membro della Nato, l’Alleanza non si comporta come se uno dei suoi sia stato attaccato: far entrare l’Ucraina rapidamente nell’Alleanza significa entrare in guerra contro la Russia. La Nato vuole? Può? Affatto. Perché Nato equivale a Stati Uniti, necessariamente ripiegati su se stessi in vista del 2024 e con nessuna voglia di un nuovo Afghanistan; perché Nato vuol dire puzzle europeo, ove ogni decisione è ormai una gazzarra a 27, perfino quando si tratta di sostenere un Paese invaso.
Un anno dopo, in attesa che la neve si sciolga ancora una volta, il foraggiamento dell’Ucraina in guerra non ha più le sfumature del supporto all’aggredito. Si sta trasformando nella foglia di fico di un Occidente claudicante, che pompa un Paese sfinito per paura di andare allo scontro.
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