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Andrea Doria, l'ammiraglio che divenne principe

Il 12 settembre 1528 l’ammiraglio Andrea Doria, l’uomo forte della Superba, stabilizzò la molta turbolenta Repubblica imponendo le Costitutiones Noves con cui l’amministrazione pubblica divenne appannaggio esclusivo delle famiglie nobili – le vecchie dette del “Portico di San Luca” e quelle nuove del “Portico di San Pietro” – raggruppate in un Unicus Ordo e rappresentate in un maggior consiglio di 400 membri e un minor consiglio di 100 dove ogni due anni si eleggeva la “berretta rossa”, l’emblema dogale. Su tutti e tutto vegliavano i Supremi Sindicatori – i veri controllori dello Stato – e il loro Priore a vita, Andrea Doria. Un colpo di Stato e/o una rivoluzione, come fissa Gabriella Airaldi nel suo lavoro sul marinaio d’Oneglia, cucinata alla maniera genovese: “Come in passato l’élites prende nelle sue mani le sorti della città, e questa volta l’operazione non va a scapito di nessuno. Ora sono tutti cives nobiles, un’autodefinizione che qualifica gli appartenenti ai 28 alberghi [le casate storiche, Ndr]. Si tratta di 1500 persone con 600 cognomi, su cui nasce o almeno si consolida una nobiltà civica. Andrea Doria è l’autore del più grande cambiamento avvenuto nella storia genovese. L’unione segna infatti un mutamento epocale. Resterà sempre aperta la discussione, resteranno le congiure; ma, scegliendo di essere unito il ceto dirigente ha assunto volutamente e liberamente un’unica fisionomia; e questo, al di là di qualche piccola modifica, segnerà un’età”.  

Domate le fazioni interne, lo ieratico Priore abbandonò definitivamente il campo francese schierando la Respubblica Ianuensis con gli austro-spagnoli. Una mossa decisiva che assicurava a Carlo V d’Asburgo il controllo del Mediterraneo occidentale, con i vitali collegamenti tra Spagna, Napoli, Palermo – la rotta tra Rosas e Gaeta – e Lombardia e Germania, il predominio su gran parte della Penisola e la piena disponibilità dei servizi finanziari genovesi, i capienti forzieri necessari per sfamare la vorace macchina bellica imperiale.

Ancora l’ennesima, italianissima giravolta? No. Si trattò di una meditata scelta geopolitica compiuta nell’interesse dello Stato. La progressiva chiusura tra il 1460 e il 1517 del fruttuoso mercato inglese e la dissoluzione della rete commerciale in Oriente, convinsero il Doria che, perso uno scenario, per Genova era tempo di consolidare e ampliare l’altro. Tra Siviglia, Madrid, Anversa e le Americhe.  Tra il Mediterraneo e gli oceani.

Un passaggio dirimente, in cui, come è ovvio, il denaro ebbe un ruolo importante: per assicurarsi le galee doriane l’amministrazione iberica stipulò un contratto di noleggio, l’asiento, di ben 72mila ducati, il doppio esatto di quanto erogato all’ammiraglio dai francesi. Ma, al netto degli incassi e dei calcoli politici, la decisione del navarca ligure rappresenta in quel tempo malefico, punteggiato da continui tradimenti e incessanti complotti, un unicum. È, appunto, “l’eccezione doriana” su cui gli storici continuano ancor oggi a scervellarsi. A ragione. Andrea non era un politicante, un mercante, un pirata o un capitano di ventura ma era altro, ben altro. Per l’Airaldi l’onegliese: “Era un cavaliere, un artista della guerra, uno degli uomini più potenti della sua epoca; come tale deve difendere la sua potenza e conservarne i segni; ma non è ricco; d’altronde lui preferisce la potenza alla ricchezza e recita la sua parte come Carlo recita la propria; per questo il principe passa la maggior parte con le sue armi, sulla sua galera; un mondo particolare, a suo modo solidale, dove però la convivenza obbligata rende la vita grama a tutti”.

La scelta di unirsi in modo indissolubile a Carlo fu più di un’alleanza fruttuosa. Fu l’incontro tra due solitudini sobrie, umbratili, sommamente orgogliose. Un legame virile che, come conferma il loro denso carteggio, mai vacillò. L’anziano Doria offerse al giovane sovrano spade, marinai, navi e capitali, l’Asburgo nominò l’amico Capitano generale della flotta mediterranea e principe di Melfi, lo insignì del Toson d’Oro – massima onorificenza imperiale, riservata solo a trenta gentiluomini – e garantì l’indipendenza di Genova assicurandole un lungo periodo di magnificenza barocca: el siglo de los genoveses.   

Nonostante l’età avanzata e le incombenze di governo, il Doria – maggior asentista dell’impero – non smise di navigare in un Mediterraneo sempre più insidiato dai nemici francesi e affollato da ottomani e barbareschi. Uno scenario reso ancor più cupo dallo stagliarsi sulla scena di Solimano il Magnifico, il nuovo sultano della mezzaluna. Un conquistatore. Nel 1520, all’indomani dell’insediamento sul trono di Costantinopoli, i suoi eserciti risalirono i Balcani a mo’ di rullo compressore, conquistando nel 1521 Belgrado poi nel ’26 l’Ungheria per arrestarsi, nel ’29, davanti alle mura di Vienna. Una pausa provvisoria. Congelato momentaneamente il fronte balcanico il sultano – dopo aver preso nel 1522 Rodi, la rocca dei Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni, ultima memoria delle crociate – si rivolse al Mediterraneo ed estese gradualmente il suo dominio in Africa settentrionale, insidiando le posizioni spagnole a Melilla, Mers el Kebir, Orano, Bugia, Tripoli e scardinando l’influenza di Madrid sugli stati musulmani del Mahgreb.

Solimano, ben consapevole dell’importanza del potere marittimo, si avvalse dei servigi di Khair ad-Din – per i cristiani semplicemente il Barbarossa – celebre corsaro barbaresco e beylerbeyi d’Algeri. Nominato nel 1533 kapudan paşa, comandante supremo delle flotte sultaniali, il carismatico condottiero si rivelò per gli ottomani l’uomo giusto al momento giusto. L’ammiraglio riorganizzò mezzi ed equipaggi forgiando uno strumento navale ottimamente diretto dal turco Dragut e da una schiera di celebri rinnegati come il calabrese Giovan Dionigi Galeni diventato El Ulug Alì, per i cristiani più semplicemente Uccialì, l’ebreo Sinan, il genovese Aydin, il siciliano Cicala.  Coadiuvato dai suoi giovani luogotenenti, Barbarossa pianificò una strategia navale di largo respiro. Sotto il suo comando i turchi, rafforzati dall’“empia alleanza” tra la Sublime Porta e Francesco di Francia, passarono all’offensiva generale: “Forti di una flotta notevolissima, sì da imporsi a Preversa, nel 1538, allo stesso Andrea Doria, costringendolo a ritirarsi pur in condizioni di superiorità numerica; affiancati dai pirati barbareschi, che hanno capi abili come Barbarossa e Dragut e dispongono di una base come Algeri; favoriti dalla diffidenza e dai dissensi tra le due più forti potenze marittime cristiane, la Spagna con Genova e Venezia, irrompono con scorrerie in grande stile e attacchi improvvisi, nello stesso Mediterraneo occidentale. L’egemonia spagnola subisce un gravissimo colpo. Tripoli, affidata da Carlo V nel 1530 ai Cavalieri di San Giovanni, è persa nel 1551; e nonostante la controffensiva voluta da Filippo II, nel 1574 cadono in mano ai turchi Tunisi e La Goletta, la vecchia roccaforte spagnola sul lido africano, il posto avanzato verso Oriente”.  

Mentre il sogno asburgico di un impero cristiano in Africa settentrionale si frantumava, tra il Doria – al fianco di Carlo nella vittoriosa conquista di Tunisi nel ’34 come nella disgraziata spedizione d’Algeri del ‘41, ma sempre geloso della sua autonomia – e il Barbarossa si protrasse una estenuante quanto prudente partita a scacchi. Come a Preversa, ambedue i comandanti evitarono costantemente di impegnarsi in uno scontro frontale decisivo. Significativamente i cronisti del tempo li paragonarono ai lupi, che non si mangiano tra loro, o ai corvi che non si beccano l’un altro negli occhi”.

Quando il Barbarossa trascorse a Tolone, ospite di Francesco, l’inverno 1543-44 cooperò con le sue 110 galee alla presa della sabauda Nizza ma si rifiutò di assediare Genova. Sempre in quell’occasione il kapudan paşa, in navigazione nelle acque tirreniche con gli alleati francesi, s’imbatté per caso nelle navi doriane, riconoscibili a distanza per le nere vele, e volutamente finse di non vederle, e ai francesi che lo incitavano ad attaccarle, rispose che i suoi vecchi occhi vedevano più cose che non gli occhi dei suoi giovani alleati“. Quali? In molti hanno sostenuto l’esistenza di un’intesa segreta tra i condottieri – personaggi audaci e armatori molto oculati, preoccupatissimi di salvaguardare in ogni occasione il proprio capitale – per limitare danni e spese e mantenere il filo mai spezzato dei rapporti commerciali tra le due sponde del Mediterraneo. Per Doria, inoltre, gli interessi di Genova, contrariamente a quelli di Venezia, si proiettavano verso Occidente e, quindi, era preferibile mediare, punzecchiare e poi di nuovo mediare con il barbuto padrone d’Algeri. Di certo la Liguria venne spesso risparmiata dalle scorrerie barbaresche e quando Barbarossa lasciò nel ’44 la Provenza ne approfittò per sbarcare alle porte di Genova e discutere nella fastosa villa di famiglia di Fassolo la liberazione del corsaro Dragut, suo luogotenente caduto nelle mani di Andrea, e della concessione alla famiglia dei Lomellini – legatissima alla dinastia – dell’isola tunisina di Tabarca, uno dei principali centri della pesca del corallo. Per entrambi un buon affare.

Nel 1547 il Barbarossa raggiunse il suo Allah in cielo ma Andrea non ebbe tempo per gioire o rimpiangere il suo scomodo, ma non troppo, rivale. In quell’anno l’anziano ammiraglio dovette affrontare e, con rara durezza, reprimere la congiura dei Fieschi, una delle famiglie nobili più potenti di Genova e da tempo in rotta con i Doria. Nella notte fra il 2 e il 3 gennaio le milizie dei rivali tentarono un colpo di Stato subito abortito ma nella mischia rimase ucciso Giannettino Doria, nipote ed erede del priore. La vendetta fu terribile e il clan dei Fieschi venne annientato e disperso. Una magra consolazione. Ormai al termine del suo cammino terreno il patriarca nominò suo erede il bis nipote Gio Andrea e il 25 novembre 1560 chiuse per l’ultima volta gli occhi. Per Genova una perdita incolmabile.

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