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Prende forma la cerniera di fuoco Usa: l'offensiva di Biden per arginare la Cina

In principio tutto si basava sulla cosiddetta Island Chain Strategy, traducibile in Strategia della catena di isole. Nel 1951, appena entrati nella Guerra Fredda, l’allora segretario di Stato Usa, John Foster Dulles, riteneva che il potenziale di un’alleanza tra Unione Sovietica e Cina potesse essere limitato, o addirittura azzerato, attuando una catena contenitiva costituita da isole coincidenti con gli alleati locali di Washington, una catena che, geograficamente parlando, partisse dal Pacifico e superasse il Mar Cinese Meridionale.

Presero così vita tre catene di isole, le stesse che ancora oggi dovrebbero limitare la forza di proiezione di Pechino nell’Indo-Pacifico. Abbiamo usato il condizionale, visto che lo stratagemma di Dulles ha iniziato a mostrare preoccupanti segnali di cedimento di pari passo con l’ascesa della Repubblica Popolare Cinese.

Oggi che la Cina può essere considerata una potenza globale, il recinto immaginato dagli Stati Uniti oltre mezzo secolo fa è sempre più obsoleto. Ed è per questo che Joe Biden, fin dai primi giorni del suo insediamento, ha completato l’aggiornamento della politica estera statunitense, virando sulla regione indo-pacifica per contrastare il nuovo nemico sistemico: quella Cina un tempo considerata potenziale partner, o meglio, El Dorado perfetto, mercato infinito, nel quale delocalizzare le aziende per accrescere il peso economico delle economie occidentali.

Alla fine l’ottimismo sbandierato dal governo americano, secondo cui, attraverso il commercio, i cinesi avrebbero presto archiviato il loro sistema politico per abbracciare il modello liberaldemocratico, si sarebbe rivelato vano. Il risultato è che Washington rischia di essere estromessa dall’Indo-Pacifico, sostituita dal Dragone, nel caso in cui i processi geopolitici in atto non dovessero essere bloccati. Tre catene di isole non sono più sufficienti per fermare la Cina. Dal punto di vista Usa, una cerniera di fuoco potrebbe essere più utile alla causa attuale.



Un presente instabile

La prima catena di isole inizia con le Isole Curili e termina tra il Borneo e la parte settentrionale delle Filippine. Nella versione più diffusa, la seconda catena di isole comprenderebbe le isole giapponesi di Ogasawara e Vulcano, oltre alle isole Marianne (fra cui l’isola di Guam, importante base militare Usa), che sono parte del territorio degli Stati Uniti. La terza catena, infine, inizia dalle Isole Aleutine e termina in Oceania, con un occhio di riguardo per le Isole Hawaii, anch’esse parte integrante del territorio degli Stati Uniti, nonché sedi di basi navali statunitensi.

Per decenni, queste catene hanno rappresentato tre solide barriere che hanno saputo soffocare i sogni di gloria della Cina, schiacciandola lungo le proprie coste e, di fatto, impedendole di diventare (o tornare ad essere) una potenza marittima. Perché questa strategia necessita un aggiornamento?

Ci sono almeno tre cause. La ragione principale, come detto, è che la Cina è stata in grado di convertire parte del suo rafforzamento economico in sviluppo militare. La Marina cinese, in particolare, è stata protagonista di un “grande balzo in avanti” stimolato dalla leadership comunista. Secondo l’Ufficio dell’Intelligence Navale degli Stati Uniti (Oni), nel 2015 la Marina di Pechino poteva contare su una flotta costituita da 255 navi da battaglia; alla fine del 2020 le imbarcazioni erano diventate 360, ovvero 60 in più rispetto alla marina americana. Entro il 2024, sempre secondo l’Oni, la Cina potrà contare su 400 navi militari. La svolta risale al 2015, quando Xi Jinping ha deciso di attuare un progetto radicale per trasformare l’intero esercito cinese in un esercito di livello mondiale, ordinando massicci investimenti in cantieri navali e tecnologia. Supponendo la progressiva modernizzazione dell’apparato militare cinese, sperare di contenere le ambizioni del Dragone con le tre catene di isole ideate negli anni Cinquanta del secolo scorso appare quanto mai velleitario.

La seconda ragione è che la Cina, oltre a crescere su tutti i fronti, ha adesso intenzione di modificare un ordine globale che considera a trazione statunitense. Dunque, tra accordi e intese, Pechino farà di tutto per espandere la propria influenza, intanto, nella regione asiatica, da tempo incastonata nell’architettura diplomatica di Washington.

Il terzo e ultimo punto chiama in causa le altre potenze asiatiche, dal Giappone alla Corea del Sud, che sono sì desiderose di porre un freno alla Cina, ma che allo stesso tempo non sembrerebbero voler chiudere le porte in faccia al gigante asiatico, complici comprensibili ragioni economiche. Unendo i tre punti, si capisce perché gli Stati Uniti hanno dovuto aggiornare il loro piano.

Marinai americani sul cacciatorpediniere classe Uss Milius operativo nel Mar Cinese Meridionale. Foto: Marina Usa.

Dalle catene di isole alla cerniera di fuoco

Potersi permettere maggiore libertà di azione nel Mar Cinese Meridionale consentirebbe alla Cina, non solo di allontanare l’ombra dei rivali statunitensi, ma anche di rompere la prima catena di isole, per poi pianificare una lenta e graduale penetrazione verso il Pacifico. Ecco perché Pechino sta cercando di tessere buoni legami con numerosi vicini di casa, molti dei quali vicini agli Stati Uniti.

Dall’altro lato, Washington ha capito che era arrivato il momento di lanciare una riorganizzazione generale della propria presenza nell’Indo-Pacifico. Più che semplici catene di isole, gli Usa stanno dando vita ad una cerniera di fuoco estesa dal Giappone alle Filippine, con picchi in Australia, Nuova Zelanda e India. L’obiettivo è sempre lo stesso: bloccare sul nascere ogni ascesa cinese nella regione.

Tralasciando le varie modifiche in atto nelle basi americane dislocate nella regione, ci sono da segnalare almeno cinque aspetti rilevanti relativi alla costruzione di questa fantomatica “cerniera”. Si parte con il rafforzamento della cooperazione militare degli Usa con Giappone e Corea del Sud: Tokyo ha annunciato un sostanziale aumento nelle spese militari, mentre Seoul, oltre ad essersi formalmente riavvicinata al rivale nipponico, starebbe ragionando sul fatto di dotare il Paese dell’arma nucleare come deterrente.

Proseguendo la linea della cerniera, arriviamo a Taiwan, che Washington potrebbe pensare di trasformare in una sorta di roccaforte armata, da alimentare mediante l’invio di armamenti e munizioni. Arriviamo così alle Filippine, dove gli americani potranno presto utilizzare quattro nuove basi. I siti coincidono con la base navale Camilo Osias a Sta Ana e l’aeroporto di Lal-lo, entrambi nella provincia di Cagayan, con Camp Melchor Dela Cruz, a Gamu, provincia di Isabela, e infine con Balabac, a Palawan. È importante sottolineare che Isabela e Cagayan si trovano sull’isola principale di Luzon, rivolta a nord verso Taiwan, mentre Palawan è vicino alle contese isole Spratly nel Mar Cinese Meridionale.

Per completare il quadro, Washington cercherà di promuovere i ruoli militari di Australia, Nuova Zelanda e India, spingendo su Quad e Aukus. Nelle intenzioni di Biden dovrebbe così prendere forma una cerniera in grado di chiudere ogni spazio vitale di fronte all’ascesa cinese.

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