I dati del Viminale dei giorni scorsi parlano chiaro. Dalle coste tunisine, dal primo gennaio a oggi, c’è stata una media di 180 partenze al giorno indirizzate verso l’Italia. Si potrebbe pensare che tutto questo sia figlio di un esodo dal Paese nordafricano. La Tunisia è stretta nella morsa dell’inflazione, della penuria di generi di prima necessità e di un bilancio che senza prestiti potrebbe lasciare il governo a secco di fondi. A rischio ci sono i sussidi per le (tante) famiglie povere e gli stipendi.
Eppure, i tunisini arrivati in Italia in questo primo trimestre sono stati poco più di 1.800. Il doppio se si prende in considerazione lo stesso periodo dello scorso anno, ma un’esigua minoranza rispetto agli oltre 15.000 migranti partiti da gennaio a marzo dalle coste dirimpettaie a Lampedusa. Non c’è quindi alcun esodo. Al contrario, dalla rotta tunisina stanno giungendo soprattutto migranti subsahariani e di nazionalità spesso associate alla rotta libica. Ci sono quindi dinamiche inedite all’origine dell’attuale grave trend migratorio.
Lo spostamento di migranti dalla Libia alla Tunisia
La principale differenza tra la rotta tunisina e quella libica ha sempre riguardato uno specifico elemento: la prima ha come principali protagonisti gli stessi tunisini, la seconda invece i migranti subsahariani. Oggi, come detto, il quadro è molto diverso. A guidare la classifica delle nazionalità più presenti tra i migranti sbarcati, sono i cittadini di Costa d’Avorio e Guinea. Seguono poi i migranti provenienti da Bangladesh e Pakistan. La Tunisia, nel primo trimestre del 2023, si è piazzata soltanto al quinto posto.
Evidente quindi come la rotta tunisina abbia iniziato a coinvolgere una platea diversa da quella consueta. Il motivo può essere rintracciato, in primo luogo, dal passaggio di frontiera di molti migranti presenti in Libia. I gruppi criminali operanti in Tripolitania cioè, potrebbero aver iniziato a fare affari con i trafficanti presenti al di là del confine tunisino.
Non sarebbe la prima volta. In passato, quando la rotta libica per via degli scontri a Tripoli diventava difficile da percorrere, gli scafisti non hanno mai perso tempo nel trasferire le basi in Tunisia. Oggi nella parte occidentale della Libia non sembrano esserci particolari condizioni in grado di fermare le organizzazioni criminali, ma è possibile pensare che il governo del premier Ddeibah voglia operare una stretta sui controlli dopo i recenti accordi con Giorgia Meloni. Questo potrebbe aver inciso sulla scelta dei trafficanti libici di sconfinare in Tunisia.
Il giro di vite sui migranti promesso da Saied
La sola ipotesi di un trasferimento di parte dei migranti dalla Libia non basta a spiegare questo aumento dei flussi lungo la rotta tunisina. Accanto ai cittadini subsahariani provenienti dall’altra parte del confine, occorre considerare anche i migranti già presenti da anni in Tunisia. Si tratta di persone arrivate nel Paese nordafricano per trovare lavoro e vivere qui stabilmente. Per via della crisi economica, anche per loro la situazione adesso è diventata difficile. In tanti vorrebbero andare via e, nella stragrande maggioranza dei casi, tornare indietro è quasi impossibile. La traversata del Mediterraneo per molti appare quindi l’unica via percorribile.
Specialmente da quando, nelle scorse settimane, il presidente tunisino Kais Saied ha lanciato proclami contro la presenza di migranti nel suo Paese. “Vogliono toglierci la nostra identità araba – ha tuonato – è un piano ben preciso che va avanti da anni. Ma noi lo eviteremo”. Un monito che ha assunto da subito le sembianze di un invito, rivolto ai migranti subsahariani, a lasciare la Tunisia.
Tunisi in cerca di alleati
Una dinamica del genere ha imposto nei corridoi diplomatici uno specifico sospetto: possibile che le autorità tunisine stiano volutamente chiudendo un occhio sulle attività dei trafficanti? In tal modo, Saied potrebbe chiedere soldi per trattenere nelle proprie spiagge i barconi. Del resto il presidente tunisino ha dei precedenti a cui potersi aggrappare per eventualmente alimentare le sue speranze. Nel 2016 l’Unione Europea, spinta dalla crisi della rotta balcanica, ha pagato tre miliardi di Euro alla Turchia per sigillare le frontiere.
Tunisi in effetti ha un bisogno disperato di fondi. C’è in ballo un prestito da parte dell’Fmi per evitare il collasso del bilancio, ma l’istituto con sede a Washington sta tentennando. Saied non vuole dare via libera alle riforme richieste. Tra queste, lo stop ai sussidi per il pane e la farina (circostanza che metterebbe ancora di più in ginocchio le famiglie più povere) e le liberalizzazioni. L’arrivo dei soldi è quindi a rischio.
Prima ancora che economico però, il nodo potrebbe essere politico. Il presidente tunisino, in particolare, potrebbe (o vorrebbe) utilizzare l’attuale crisi migratoria non tanto come un appoggio finanziario, quanto come sostegno di natura politica. L’obiettivo di Saied sarebbe dimostrare l’importanza della Tunisia per gli equilibri della regione. In tal modo, Tunisi spera di convincere i principali attori internazionali a non lasciar fallire il Paese. Non è un caso che l’Italia, la più interessata dall’impennata delle partenze, si è fatta portavoce delle istanze tunisine. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha sentito nei giorni scorsi il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, proprio per parlare delle attuali difficoltà del Paese nordafricano. La strada però è impervia e l’estate è sempre più vicina. Uno scenario che non induce, almeno per il momento, all’ottimismo.
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