Washington ci riprova: corteggiare l’India, nella speranza di far breccia nel continente asiatico. E lo fa esattamente negli stessi giorni in cui il Paese è protagonista del vertice del G20: sviluppo, da un lato, e Difesa, dall’altro, pare saranno i fattori chiave di questa rinnovata partnership strategica.
Qui, però, le mire del Dipartimento di Stato rischiano di infrangersi contro la lezione (mai imparata) della storia. Un Paese gigante, forte delle sue dimensioni e del suo miliardo e mezzo di abitanti, infatti, non potrà mai essere trattato né come satellite tantomeno come semplice “cortile di casa”. New Delhi, segue le sue direttrici dal pulpito che la globalizzazione, i Brics, il G20 e tutta la geopolitica attuale le hanno conferito: in soldoni, non si schiererà contro Mosca e Pechino solo perché lo vuole Washington. Negli anni Sessanta, cadde già in questo errore l’amministrazione Kennedy, con conseguenze politiche che si riverberano sino ad oggi.
L’ossessione di Kennedy per l’India
Alla fine degli anni Cinquanta, l’amministrazione Eisenhower aveva lasciato in eredità al senatore Kennedy un forte alleato militare, il Pakistan. Kennedy, alla data della propria elezione, vantava una quasi ossessione per l’Asia: è nell’aumento vertiginoso degli aiuti economici all’India nerhuviana che si possono individuare i prodromi di questo tentativo di conquista. Il 1961 segnò la svolta indiana di Kennedy: l’approvazione del Foreign Assistance Act, fece confluire il cuore degli aiuti americani all’estero verso Delhi. Dall’altra parte del pianeta, Jawaharlal Nehru, eterea figura: l’uomo che prese il timone della giovane nazione aveva scelto a Bandung la strada del non allineamento. All’epoca, però, è già chiaro come la politica estera nerhuviana non fosse mai stata veramente non allineata, bensì bi-allineata: in sintonia con Washington, dopo le generose elargizioni, ma pronta, allo stesso tempo, a rivolgersi a Mosca per trattare la vendita dei potenti MIG 21.
La New Frontier costituì il mezzo per tentare di inoculare in Asia, ancora una volta, il contenimento. L’estensione della penisola indiana costituiva una delle ragioni primarie della scelta di Kennedy: un perfetto bastione tattico per arginare le mire espansionistiche cinesi. Pensare, tuttavia, di fare dell’India un presidio anti-cinese fu il più grave errore strategico commesso dalla dottrina Kennedy: Delhi difficilmente si sarebbe convertita alla Nuova Frontiera solo perché a Jfk e ai dollari non si poteva dire di no.
Il fallimento del contenimento asiatico
Gli uomini di Washington, nelle loro occasionali visite nel subcontinente, non seppero soppesare cosa l’India fosse, ma soprattutto cosa volesse. Il banco di prova della solidità tra i due “friends, not allies” fu senza dubbio la vicenda di Goa nel dicembre 1961. Il Portogallo di Salazar, seppur affetto da gravi deficit di democrazia interna, costituiva un perno fondamentale nel sistema NATO, agli occhi di Washington molto più importante della piccola guerra di Goa. Con dodici mesi così difficili alle spalle, il 1962 sembrò inaugurare una nuova era dell’intesa indo-americana. La prima occasione si presentò in merito alla minaccia rappresentata dai MIG 21, che gli Stati Uniti si apprestarono a “sostituire”, mettendo in campo un possibile piano alternativo che potesse coinvolgere altri paesi NATO. Ma fu proprio in virtù di quell’allarme che l’amministrazione americana finì per impantanarsi nella vicenda del Kashmir, accentuando le linee di conflitto preesistenti.
Il progetto kennediano si trasformò in una strategia miope e pasticciata: gli Stati Uniti dovettero così rinunciare all’ardua impresa di trasformare il subcontinente indiano in una fortezza anti-comunista: Nehru continuò a rivolgersi verso Mosca nelle vicende più critiche della vita politica della nazione. Un legame profondo, che verrà confermato dalla figlia Indira, fautrice di un sodalizio indissolubile con i sovietici.
Sessant’anni dopo: gli sforzi dell’amministrazione Biden (e quelli di Trump)
Se c’è un’immagine che può sintetizzare il rapporto tra l’India di Modi e gli Stati Uniti di Trump è la la cerimonia di accoglienza che il primo riservò al suo omologo nel febbraio 2020 dallo slogan “Namastè Trump“. L’amministrazione americana raccoglieva un’eredità pesante e avevano fronteggiato una crisi fortissima tra il 2017 e il 2018. Nell’ottobre 2018, infatti, l’India aveva firmato lo storico con la Russia per l’acquisizione di quattro sistemi S-400 Triumf, ignorando gli accordi precedenti con Washington. Gli Stati Uniti avevano, dunque, risposto con la minaccia di sanzioni legate anche all’acquisto di petrolio dall’Iran. Tuttavia, solo pochi mesi dalla sua visita a New Delhi, il 21 dicembre 2020, il presidente Trump conferiva a Modi la Legione al merito per aver migliorato le relazioni India-Stati Uniti.
Poi un altro scatto nel maggio del 2022 un nuovo scatto con l’annuncio dell’niziativa Usa-India sulla tecnologia critica ed emergente (iCET) al fine di espandere la partnership tecnologica strategica e la cooperazione industriale della difesa tra i due Paesi, ma soprattutto, di contenere la Cina su più fronti. Ma se contrastare Pechino val bene una messa, l’errore, tuttavia, continua ad essere il medesimo: pensare che a Modi basti la miccia anticinese e il profumo dei dollari per diventare magicamente alleato degli Stati Uniti.
Dacci ancora un minuto del tuo tempo!
Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.