Non è stata, quella del Consiglio Europeo del 9 e 10 febbraio 23, la prima volta in cui gruppi più o meno numerosi di Stati hanno chiesto che l’Unione europea finanzi l’erezione di muri, fisici e tecnologici, a difesa delle frontiere europee. Già ad ottobre 2021 dodici stati Ue avevano indirizzato alla Commissione una lettera nella quale sostenevano che “la barriera fisica sembra essere un’efficace misura di protezione delle frontiere che serve l’interesse dell’intera Ue” […] “questa misura legittima dovrebbe essere ulteriormente e adeguatamente finanziata dal bilancio dell’Ue in via prioritaria”.
Ora però il fronte degli Stati che richiedono l’erezione di muri si è ulteriormente rinforzato. Per il premier polacco Morawiecki, tra i politici più accaniti sostenitori dei muri (la Polonia ne ha costruito, con i propri fondi, uno di 186 chilometri lungo il confine con la Bielorussia) vanno erette strutture che abbiano lo scopo di “sigillare i confini, perché la sovranità degli Stati membri non può essere minacciata”. Morawiecki, come altri politici europei, vede minacciata la propria sovranità non da eserciti invasori e neppure da azioni e programmi politico-economici attuati da altre nazioni con chiari intenti ostili, bensì da persone disarmate che chiedono di entrare nell’Unione, in genere povere e in fuga da luoghi e contesti diversi, accomunate da una esistenza fatta di guerre e persecuzioni, o solo dalla miseria.
Parimenti, egli non appare preoccupato del fatto che i muri fisici sono strumenti primitivi che dividono sempre in modo brutale i diversi territori nazionali, impediscono le relazioni transfrontaliere, ostacolano la circolazione, frenano lo sviluppo economico, militarizzano le società e rendono difficile la realizzazione di società aperte e plurali. A conclusione dei suoi lavori il Consiglio ha deciso di invitare “la Commissione a finanziare misure degli Stati membri che contribuiscono direttamente al controllo delle frontiere esterne dell’Ue, quali i progetti pilota per la gestione delle frontiere, nonché al miglioramento del controllo delle frontiere nei paesi chiave sulle rotte di transito verso l’Unione europea” ed inoltre “chiede alla Commissione di mobilitare immediatamente ingenti fondi e mezzi dell’Ue per sostenere gli Stati membri nel rafforzamento delle capacità e delle infrastrutture di protezione delle frontiere, dei mezzi di sorveglianza — compresa la sorveglianza aerea — e delle attrezzature”.
Un altro ultrà dei muri, il premier greco Mitsotakis, ha manifestato il suo pieno disappunto: “Mi sembra [egli afferma] davvero illogico che l’Ue finanzi tecnologia, droni, equipaggi ma rifiuti di stanziare fondi per le recinzioni. Parliamo di un approccio integrato, le recinzioni devono essere comprese”. Non c’è nulla di illogico nella distinzione che scandalizza Mitsotakis, bensì essa rappresenta proprio lo spartiacque tra un’azione conforme al diritto dell’Unione, la gestione delle infrastrutture di protezione delle frontiere, ed una che non lo è, l’erezione di muri fisici. L’art. 77 paragrafo 1 del Trattato sul funzionamento dell’Unione (TFUE) prevede infatti che l’Unione sviluppi una politica per “garantire il controllo delle persone e la sorveglianza efficace dell’attraversamento delle frontiere esterne” (lettera b) e a “instaurare progressivamente un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne” (lettera c).
Tutto ciò nel rispetto “del principio di non respingimento” (art. 78) in conformità con la convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati, con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e con gli altri trattati pertinenti. Per cercare di realizzare tali obiettivi, oltre a quanto già previsto dal regolamento (UE) 2019/1896 relativo alla guardia di frontiera e costiera europea, l’Unione si è dotata del più recente Regolamento (UE) 2021/1148 che prevede l’esistenza di uno strumento di sostegno finanziario del bilancio dell’Unione “ai fini dell’attuazione della gestione europea integrata delle frontiere per aiutare gli Stati membri a gestire efficacemente, agendo nel pieno rispetto dei diritti fondamentali, gli attraversamenti delle frontiere esterne e ad affrontare le sfide future a tali frontiere” (considerando n.8).
L’obiettivo delle politiche dell’Unione, in conformità al Trattato, è una gestione integrata delle frontiere che prevede il loro controllo e sorveglianza con un’intensità che può variare fino ad essere anche molto alta, ma non la loro chiusura attraverso muri fisici che sigillino le frontiere rendendo impossibile o enormemente difficile il loro attraversamento. Sono visioni non solo diverse, ma per molti aspetti antitetiche che nel dibattito pubblico italiano, anche a causa di un’informazione mainstream in genere molto superficiale, vengono confuse.
Fatta dunque un po’ di chiarezza sul piano giuridico, si può forse ritenere che le conclusioni del Consiglio siano positive o almeno non preoccupanti?
Purtroppo no per due ragioni: la prima è che la logica dei muri sembra comunque aver fatto breccia e non v’è alcuna certezza che, anche ricorrendo in modo più o meno opaco a vari escamotage, quei fondi europei che il Consiglio vuole siano “ingenti” non vengano di fatto indirizzati alla costruzione di barriere stabili alle frontiere; le azioni legali per impedirlo sono complesse e probabilmente le decisioni arriverebbero a cose fatte, ovvero a muri innalzati. La seconda ragione è che di mese in mese si fa sempre più forte un orientamento alla chiusura che assomiglia ad una sorta di ossessione e che sta piegando il diritto dell’Unione verso obiettivi diversi da quello per cui è nato e soprattutto sta svuotando la ragione stessa per cui l’Unione esiste quale area che “si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani” (Trattato di Lisbona, art. 1bis).
Viviamo in un’Europa che è così ossessionata dalle frontiere, esterne ed interne, che l’obiettivo di costruire una politica comune in materia di asilo che sia equa ed efficace e che garantisca il rispetto del principio di non respingimento sta venendo meno. Il Consiglio nelle sue conclusioni afferma che “l’Unione europea rafforzerà la sua azione tesa a prevenire le partenze irregolari e la perdita di vite umane, ridurre la pressione sulle frontiere dell’UE e sulle capacità di accoglienza, lottare contro i trafficanti e aumentare i rimpatri. A tal fine si intensificherà la cooperazione con i paesi di origine e di transito attraverso partenariati reciprocamente vantaggiosi”.
E ancora si afferma che “è necessaria un’azione rapida per garantire rimpatri efficaci, dall’Unione europea e dai paesi terzi situati lungo le rotte, verso i paesi di origine e di transito, usando come leva l’insieme delle politiche, degli strumenti e dei mezzi pertinenti di cui l’Ue dispone, compresi la diplomazia, lo sviluppo, il commercio e i visti, nonché le opportunità di migrazione legale”. Si tratta di espressioni volutamente generiche che lasciano mano libera ad una selva di accordi, progetti e programmi attuati con ogni mezzo e con qualunque stato terzo sia disponibile senza troppo stare a guardare chi è l’interlocutore, se governo legittimo o no, autoritario o meno. A parte un breve rinvio generale al rispetto dei diritti umani quale vuota formula di stile, non v’è, nelle conclusioni del Consiglio, come in tutti i documenti recenti dell’Unione, nessun riferimento su quali garanzie, procedure e controlli attuare sulla cooperazione con i paesi di origine e di transito, su dove finiscano le risorse e per cosa siano usate, né si affronta in alcun modo il problema di quali tutele garantire alle persone le cui “partenze irregolari” sono state alla fine impedite.
A parte favorirne il rimpatrio, coatto o volontario (spesso mascherato), l’Unione non sembra volersi interessare del destino di milioni di uomini e donne bloccati o respinti nei paesi terzi, espressione asettica per indicare paesi che più correttamente dovremmo definire paesi di confinamento. Oltre alla demolizione del diritto d’asilo, colpisce nella politica attuale dell’Unione l’assenza di azioni che mirino a realizzare una politica più razionale e lungimirante per ciò che riguarda gli ingressi per lavoro, ricerca lavoro, studio e formazione. Va ricordato che si tratta di un terreno reso quasi inagibile dalla scelta miope che fu fatta al momento della trasformazione dalla Comunità Europea all’Unione Europea, di non trasferire, neanche in modo progressivo e parziale, alcuna competenza dagli Stati membri all’Unione per ciò che riguarda le politiche di ingresso dei lavoratori stranieri.
Ogni azione dell’Unione volta “a incentivare e sostenere l’azione degli Stati membri al fine di favorire l’integrazione dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti nel loro territorio” può infatti avvenire “ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri”. (TFUE art. 79 paragrafo 4) mentre si precisa che la politica migratoria dell’Unione “non incide sul diritto degli Stati membri di determinare il volume di ingresso nel loro territorio dei cittadini di paesi terzi, provenienti da paesi terzi, allo scopo di cercarvi un lavoro dipendente o autonomo” (paragrafo 5). Sono limitazioni che hanno portato l’Europa ad un ritardo storico i cui danni sono già ora giganteschi poiché nell’attuale sistema economico globalizzato l’esistenza di ventisette diversi sistemi di ingressi per lavoro in Europa, uno per ogni Stato, è un fatto assolutamente ridicolo.
Nel Patto per le migrazioni e l’asilo del settembre 2020 la Commissione riconosce che “il sistema della migrazione legale dell’UE presenta una serie di carenze intrinseche (come frammentazione, ambito di applicazione limitato delle norme dell’UE, incoerenza tra le diverse direttive e procedure complesse) che potrebbero essere affrontate mediante misure che vanno da una migliore applicazione della normativa a una nuova legislazione” ma le proposte avanzate ovvero una revisione della direttiva sui soggiornanti di lungo periodo, una revisione della direttiva sul permesso unico e una fumosa consultazione pubblica per attirare competenze e talenti, sono palliativi dal minimo impatto.
Una Commissione con una visione politica di ampio respiro dovrebbe, pur nei limiti del suo mandato, porsi la priorità di costruire delle alleanze con i Governi più consapevoli e aperti ad un cambiamento sostenendo politiche innovative e un avvicinamento delle normative nazionali sugli ingressi che prevedano di ampliare i canali di ingresso regolari per ricerca lavoro, di consentire una maggiore mobilità dei lavoratori, e di sviluppare programmi di inclusione sociale più robusti che evitino la marginalizzazione degli stranieri e la loro caduta nella irregolarità. Ma certamente sto parlando di una Commissione che non c’è.
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