L’utilizzo sempre più diffuso delle app può accelerare e moltiplicare le decisioni istintive dettate dall’effetto panico, a sua volta generato da una comunicazione falsata e improvvida. La riflessione di Giuseppe De Tomaso
Se per fare buona comunicazione le parole vanno dosate col contagocce in ogni aspetto della vita umana, questo accorgimento vale doppio quando è in ballo il destino dell’economia. Un tempo i custodi del risparmio e i responsabili delle finanze di uno Stato si cucivano la bocca anche per fare gli auguri di Natale. Si esprimevano solo con rarissimi atti formali, a loro volta frutto di approfondite e analitiche riflessioni.
Un nome su tutti: il banchiere Donato Menichella (1896-1984), governatore della Banca d’Italia e principale artefice dell’Oscar per la migliore valuta assegnato, nel 1960, alla lira italiana. Menichella dichiarava pochissimo e influiva tantissimo, come si conviene a chi, con le proprie decisioni, può incidere sulle tasche, cioè sul futuro, di milioni e milioni di famiglie e imprese. Non era l’unico, Menichella, a impreziosire col silenzio il potere d’acquisto e l’ottimismo di un’intera popolazione, oltre che i progetti delle imprese. Anche altri nomi illustri di economia e finanza si attenevano alla regola aurea del riposo orale, a iniziare da Enrico Cuccia (1907-2000), timoniere di Mediobanca, il cui proverbiale mutismo davanti a taccuini e microfoni darà vita a narrazioni leggendarie.
Altri tempi, si dirà. Può darsi. E, però, mai come adesso che le balle si vanno facendo sistema, costruendo una specie di realtà parallela fondata sulla finzione a oltranza, forse sarebbe più vitale dell’aria, in economia e finanza, decretare un lungo silenzio stampa, come fecero gli azzurri di Enzo Bearzot (1927-2010) nel vittorioso mondiale di calcio del 1982 in Spagna. Se ne gioverebbero tutti, governanti e governati.
Non tutti i reggitori di organismi finanziari, più o meno decisivi per il portafogli della gente comune, sono in grado di trovare le parole giuste alla maniera di Mario Draghi che, nel 2012, con soli tre vocaboli (Whatever it takes) salvò l’Europa, l’euro e una moltitudine di risparmiatori. La maggior parte dei discorsi pubblici pronunciati dai big dell’economia il più delle volte provoca spiacevoli malintesi, effetti indesiderati, conseguenze in-intenzionali. La storia della “triste scienza” (sempre l’economia) è un pozzo di testimonianze al riguardo. Ma negli ultimi anni, complice il pressing a opera di una comunicazione sempre più arrembante, l’infelice utilizzo delle parole ha oltrepassato il limite di guardia, contribuendo a trasformare un raffreddore in una polmonite, e rischiando così di condurre una crisi finanziaria circoscritta alla fase, assai più deleteria, di crisi sistemica. Per dire: se alcuni osservatori non distinguono, nell’esaminare le difficoltà di una banca, tra problemi di liquidità e stati di insolvenza, le probabilità di alimentare un’ondata di panico tra i risparmiatori, e gli investitori interessati, saliranno alle stelle, con la prospettiva di una successiva dolorosa reazione a catena nell’intero universo bancario. E meno male che, negli ultimi lustri, gli interventi regolatori hanno rafforzato le difese del settore, imponendo una più cospicua patrimonializzazione degli istituti, altrimenti il fiume dei morti e feriti (finanziariamente parlando) sarebbe stato più lungo del Nilo. E, purtuttavia, di questo passo, di regolazione in regolazione, si finirebbe per ingessare, burocratizzare, il sistema, separando il settore del credito dal mondo delle imprese tout court, mondo assai distante, perlomeno nelle intenzioni e nei presupposti, dal gosplan di sovietica memoria.
Ma non divaghiamo. Se il presidente di una banca centrale, se il governatore di un istituto centrale lanciano ambivalenti segnali di preoccupazione davanti ai primi sintomi di malessere manifestati da una banca, il rischio che un esercito di risparmiatori dirotti istintivamente i propri risparmi altrove è più alto che in passato, dal momento che, oggi, le applicazioni on line consentono di trasferire in tempo reale ingenti masse di denaro, senza dover aspettare la mediazione o la spiegazione da parte del funzionario o del consulente di fiducia.
Ecco perché, mai come adesso, in piena egemonia tecnologica, è opportuno che si parli poco o nulla di contagi irrealistici (distribuendo sfiducia), oppure che si adoperi un linguaggio coscienzioso e responsabile, non foss’altro che per bloccare sul nascere quello smarrimento generale che, ridendo e scherzando (diciamo), potrebbe sfociare nell’
Il caso del vecchio Banco di Napoli (non unico, purtroppo) è emblematico. Ritenuto un modello di dissipazione del credito e pertanto costretto a gettare la spugna, è accaduto post mortem che la Sga (Società d gestione delle attività) sia riuscita a rientrare di circa il 90 per cento delle esposizioni cedute dal Banco. Traduzione: il Banco non doveva fallire. Un redivivo Mark Twain (1835-1910) di sicuro avrebbe commentato così: “La notizia della morte del Banco di Napoli era leggermente esagerata”. Morale: si fa presto a urlare la parola default. Tanto non costa nulla per chi la mette in giro. E, però, i danni che si generano sono incalcolabili.
Conclusione. Per scongiurare paura generalizzata, disinvestimenti e fuga di capitali, bisognerebbe porre un freno al protagonismo dei parolai, perlomeno nel settore economico-finanziario, che è il più delicato di tutti. Ma siccome qualsiasi intervento limitativo farebbe giustamente gridare, in democrazia, al bavaglio e alla censura, non rimane che affidarsi al senso di responsabilità di chi, bene o male, nelle istituzioni, è chiamato a tutelare il risparmio e il potere d’acquisto dei cittadini. Un bel tacer non fu mai scritto: gli operatori al massimo livello dovrebbero far tesoro di questa frase. Non foss’altro che per fermare quell’effetto moltiplicatore dell’effetto panico, che potrebbe diventare immediato e virale grazie alla rete dei nuovi sportelli finanziari: le app su smartphone e tablet.