Quando annuncia i 450 milioni di euro in armi che l’Unione europea sta inviando all’Ucraina Joseph Borrel, l’Alto rappresentante dell’Unione europea, si commuove. Pare non crederci nemmeno lui. Nel giro di una settimana l’Europa è diventata potenza geopolitica. Si sta armando e sta armando. All’unanimità sta imponendo imponenti sanzioni che sarebbero apparse assurde solo lunedì scorso. «L’Europa si fa nelle crisi», Borrel pare dire a se stesso domenica sera quando parla alla stampa: «Questa è una grande crisi». Un’altra.
Come la crisi epidemica del Covid, quella che fino a una settimana fa era considerata la più grande nella storia della Ue, ha dato vita ad un primo bilancio comune, così la crisi della guerra portata da Mosca ai confini d’Europa, sta facendo nascere la difesa comune. Nel giro di due anni straordinari, prima l’epidemia e poi la guerra, l’Unione europea ha preso a parlare con una sola voce. Sorprendo tutti. Gli europei per primi, che adesso ci credono. E che tanto devono per motivazione e volontà all’altrettanto inaspettata resistenza contro l’invasore russo, per la libertà, condotta con coraggio dai vicini ucraini. Che nella testa di tutti sono già diventati europei a pieno titolo.
A marcare il cambio di passo è la Germania di Olaf Scholz: nel giro di poche ore ha messo fine alla politica di disarmo tenuta fin dalla fine della Seconda guerra mondiale e sempre sostenuta dai socialisti, anche quando i popolari di Angela Merkel avrebbero voluto porvi uno stop due anni fa. Adesso basta con i tentennamenti: la Germania stanzia 100 miliardi di euro per le sue forze armate e si impegna a mantenere i suoi investimenti in Difesa al di sopra di quel 2 percento annuo del prodotto interno lordo che aveva promesso e mai mantenuto in sede Nato. Il gigante economico europeo cessa di essere un nano militare e si mette alla testa del riarmo del Vecchio Continente. Così perfino la Svezia, che non fornisce armi a nessuno dal lontano 1939, abbandona la sua politica di neutralità e invia 5mila missili anti carrarmato in Ucraina. Come la Germania. Come l’Italia.
Solo l’anno scorso l’Europa, conscia di un mondo in profondo cambiamento, aveva creato la “European Peace Facility”, o EPF, uno strumento al di fuori del budget europeo con un tetto massimo di 5 miliardi di euro, per finanziare operazioni di sicurezza internazionale che hanno implicazioni militari: uno dei primi strumenti di finanziamento di una Difesa comune europea. Ma quello che sembrava dovere restare un meccanismo discreto, come si evince dal nome stesso, si sta rapidamente trasformando nel primo nucleo del budget della comune difesa europea. Lo strumento con cui l’Europa oggi si riarma e arma i suoi alleati. Con cui difende la sua democrazia e il suo sistema di valori. E se ora verranno raccolti 450 milioni di euro in “assistenza letale” (più altri 50 “non letali” come kit di pronto soccorso e giubbotti anti-proiettili) per l’Ucraina, oltre a tutti gli invii di armi che ciascun Paese europeo ha stanziato autonomamente, già si ergono le voci che chiedono un budget per la difesa europea di 500 miliardi di euro. Proporzionale al peso economico dell’Unione. «Un altro tabù è caduto», ha commentato Borrel.
Le misure militari seguono altre mosse che fino a ieri a Bruxelles sembravano impossibili: la Germania ha messo in freezer il gasdotto Nordstream2 che avrebbe dovuto diventare l’alternativa di Vladimir Putin ai due gasdotti che per portare gas in Europa attraversano l’Ucraina, portandole risorse. British Petroleum ritira la sua partecipazione di quasi il 20 per cento in Rosneft, la società petrolifera russa, rinunciando ad almeno 25 miliardi di euro alla fine del primo trimestre di quest’anno. Il difficile allontanamento dell’Europa dalla Russia, a valle di trent’anni passati ad intrecciare un’economia interconnessa, ritenuto complicatissimo da farsi solo settimana scorsa, è invece iniziato col botto. E non sarà indolore. Ma intanto Scholz ha già annunciato la riapertura di rigassificatori tedeschi e l’Italia quella di centrali a carbone ormai sulla via dell’estinzione. L’Europa si prepara a fare a meno della Russia. E se nel breve periodo vorrà dire una severa battuta d’arresto per la transizione verde, tra qualche anno potrebbe però accelerarla di colpo, tempo di costruire le nuove infrastrutture.
Anche sul piano delle sanzioni alla fine l’Europa si è decisa ad aumentare il fuoco. Insieme a Stati Uniti, Canada e Regno Unito, l’Unione europea blocca da oggi metà delle riserve straniere detenute dalla Banca centrale russa, indebolendo la sua capacità di fare fronte ai costi associati alla guerra in Ucraina, e impedisce ad alcune banche russe l’accesso al sistema dei pagamenti internazionali Swift per impedire a Mosca di trovare escamotage per evitare le sanzioni, come avvenuto in passato. Inoltre l’Unione europea bloccherà i conti personali di una trentina di oligarchi russi. E ieri sera, incredibilmente, anche la Svizzera ha fatto sapere che potrebbe seguire la linea dettata dall’Europa, bloccando i fondi dei miliardari russi.
Infine, ma la cosa la dice lunga sulla gravità della crisi alle nostre porte, il Servizio di Azione Esterna, su consiglio del suo nuovo braccio creato per lottare contro la disinformazione, East Strat Comm, ha deciso di bloccare la trasmissione di due media russi in Europa: “Russian Today” e “Sputnik”. Un’azione inaudita per un Continente che difende a spada tratta la libertà di stampa e di espressione.
«Stanno infettando le menti con notizie false», ha risposto Borrel a chi gli ha chiesto conto ieri notte, invitando tutti i cittadini a recarsi sul sito di East Strat Comm per informarsi. «Oltre allo spazio fisico Putin vuole anche conquistare lo spirito della gente con una gigantesca campagna di disinformazione che noi stiamo combattendo dal 2015». Prima sottotraccia. Adesso apertamente, senza remore. In gioco non è solo l’Ucraina ma il nostro futuro.