Stati Uniti e Iran sono in guerra. Un conflitto fantasma, non dichiarato, che si gioca lungo le sponde dell’Eufrate, nella Siria sud-orientale, quella stessa area che per qualche anno è stato il cuore dello Stato islamico. Ovviamente né Washington né Teheran confermano, eppure i rapporti di fonti terze non mancano, anche se è difficile avere numeri certi di questa guerra segreta.
Si tratta di un conflitto fatto a colpi di raid e droni che coinvolge queste due fazioni con un terzo invitato ingombrante: Israele. Ma andiamo con ordine. Da un lato c’è la galassia delle milizie filo iraniane, che operano in terra siriana per conto degli Ayatollah e che vanno dagli Hezbollah libanesi ai Liwa Fatemiyoun, una brigata di combattenti afgani spediti dai Pasdaran a combattere in Siria al fianco delle forze di Damasco contro le bandiere nere dell’Isis. In mezzo, però, ci sono anche gli operativi delle Guardie della rivoluzione islamica che fungono da raccordo tra le varie anime di questa galassia.
Dall’altra parte dello schieramento ci sono le forze armate israeliane, da anni impegnate in raid chirurgici in terra siriana, ma soprattutto gli Stati Uniti, anzi per la verità la Coalizione globale anti Isis. Sì perché il dispositivo varato nel settembre del 2014 su volontà dell’amministrazione Obama per contrastare l’avanzata di Abu Bakr al-Baghdadi è ancora operativo. Ufficialmente i raid contro le formazioni jihadiste non si sono mai fermati, colpiscono in Siria come in Iraq, Somalia e Afghanistan. Il punto è che non centrano solo miliziani vicini all’ideologia di Al Qaeda e Isis, colpiscono pure obiettivi iraniani.
I numeri della guerra fantasma
Fonti aperte e organizzazioni internazionali come l’Armed Conflict Location & Event Data Project (Acled) monitorano da anni la violenza globale, incluso quanto succede nei cieli della Siria. Spulciando nel loro database, si scopre come negli ultimi due anni ci sia stato un aumento degli attacchi della Coalizione contro questi obiettivi.
Essendo rilevazioni empiriche, è molto probabile che ci si trovi di fronte a dati incompleti, probabilmente sottodimensionati, ma indicativi di quello che succede in quella faglia di tensione lungo il fiume Eufrate che funge da confine naturale tra i territori controllati dalle forze di Damasco e relativi alleati (Russia, Iran e milizie collegate) a Ovest e le Forze democratiche siriane, il cappello che raccoglie un’alleanza tra milizie curde e arabe creato con l’appoggio degli Stati Uniti che di fatto amministra e controlla tutta la Siria orientale.
Selezionando e ripulendo il database fornito da Acled, si possono individuare i raid contro le postazioni iraniane. Quelli condotti da forze israeliane si concentrano soprattutto in due settori: il primo è attorno alla città di Damasco, il secondo nel triangolo tra Latakia, Homs e Hama, nella Siria centro settentrionale. La coalizione, e di riflesso le forze americane, colpiscono invece lungo l’Eufrate, in particolare intorno alla cittadina di Al Mayadin, considerata la capitale delle forze iraniane in Siria.
I dati dell’Acled vengono verificati, ma non possono considerarsi esaustivi in quanto molti raid restano senza un autore. Eppure i numeri ci aiutano ad avere un’idea del fenomeno. Tra il 2018 e gennaio 2023 i raid contro obiettivi iraniani sono stati almeno 111, 64 realizzati dall’esercito israeliano e 47 dalla Coalizione. Le vittime accertate di questi raid sono state invece 345. È bene ricordare che siamo davanti a stime, non a dati certi. Per molti di questi attacchi non è stato possibile stabilire il numero esatto di morti e feriti.
Nel mirino non sono finiti solo i miliziani, ma anche operativi di Teheran come le forze Quds, il corpo dei Pasdaran che opera all’estero. In pratica le forze armate americane hanno colpito e ucciso personale iraniano, il tutto sotto il cappello della Coalizione internazionale.
Gli scontri di inizio anno
I numeri mostrano come questi raid siano andati aumentando dal 2020 e le prime informazioni che arrivano da quei settori nel 2023 confermano che questa guerra fantasma non si è ancora esaurita. Tra il 29 e 30 gennaio una serie di attacchi coi droni ha centrato milizie filo iraniane lungo il confine tra Siria e Iraq, nel valico di Abu Kamal-Al-Qaim. Il primo, condotto domenica sera, ha centrato sei camion e ucciso sette persone, il secondo ha ucciso altre tre persone, tra cui un comandante delle milizie, che ispezionavano i resti dell’attacco precedente. Il terzo raid ha poi preso di mira una cisterna uccidendo una persona.
L’attacco non è stato rivendicato, come molti altri in precedenza, ma non c’è dubbio possa trattarsi di un raid di Israele o della Coalizione. Il raid è avvenuto negli stessi giorni in cui due pezzi grossi dell’amministrazione americana visitavano Israele. I primi due attacchi sono stati condotti durante un passaggio del capo della Cia, William Burns; il terzo durante la visita del segretario di Stato Usa Anthony Blinken. Le tempistiche sono importanti, ha notato Haaretz, è infatti difficile che Tel Aviv abbia condotto raid potenzialmente imbarazzante senza notificarlo a Washington prima di una visita ufficiale.
È anche possibile che si tratti di una risposta a quanto avvenuto una decina di giorni prima. Intorno al 20 gennaio un attacco aereo con droni ha centrato una base militare Usa utilizzata dalla coalizione anti Isis nel sud della Siria. Lo United States Central Command ha scritto in uno scarno comunicato che “tre droni d’attacco hanno colpito la guarnigione di Al Tanf in Siria”. Nello stesso comunicato si legge che due di questi droni sono stati abbattuti ma che un terzo è riuscito a colpire la struttura ferendo due combattenti siriani alleati degli Usa.
Se Al Mayadin rappresenta lo snodo per le operazioni iraniane in terra siriana, Al Tanf svolge una funzione analoga per gli americani che lì hanno stabilito una base. Creato nel 2016 per addestrare i combattenti siriani per la guerra contro i miliziani dello Stato Islamico, l’avamposto di Al Tanf è stato mantenuto in funzione anche dopo il 2019, quando l’ultima sacca di resistenza islamista è stata bonificata dalle forze curde. Per Washington il settore è prezioso dato che la guarnigione funziona da presidio sull’importante autostrada che collega Baghdad e Damasco e da lì tiene uno sguardo su quanto succede più a nord.
L’area di Al Mayadin e in generale la provincia di Deir el-Zor è uno degli snodi più importanti per le attività iraniane in Siria e nel Levante. È una rotta essenziale attraverso cui Teheran fa passare armi, combattenti e merci dall’Iraq verso Damasco e il Libano. Non a caso molti dei raid di Israele e della Coalizione prendono di mira convogli di camion, depositi e piste di atterraggio.
Il velo di mistero dietro questa guerra tra Usa e Iran deriva anche dal poco rumore diplomatico che questi raid creano. Gli stessi comunicati americani sono scarni, danno poche informazioni e non puntano il dito contro nessuno né chiamano in causa direttamente Teheran. Il velo di giustificazione che si dà a queste operazioni condotte non contro lo Stato islamico ma contro forze sciite è che si tratta di operazioni difensive e di risposta a raid che impediscono alla coalizione di fare il proprio lavoro.
L’Iran allo stesso tempo sa di non potersi ritirare dall’area, ha investito troppe energie e troppo capitale politico, per perdere terreno in quello che può essere definito il suo cortile di casa, soprattutto in questo momento delicato. Dove il Paese degli Ayatollah è stretto tra le proteste e il malcontento sociale da un lato, e l’isolamento internazionale crescente derivante anche dal suo appoggio alla Russia nel conflitto ucraino, dall’altro.
Gli americani dal canto loro sanno di non poter mollare la presa in quel settore. Ancora oggi poco meno di un migliaio di soldati americani è presente in territorio siriano e continua a presidiare con un occhio sia su Teheran che sulla Russia, alleata di ferro di Damasco. Un’altra piccola guerra di logoramento lungo le faglie di tensione globale.
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