1823, l’annus fatalis degli Stati Uniti. Nel 1823, con la proclamazione della dottrina Monroe, l’Emisfero occidentale viene trasformato nella sfera di influenza esclusiva dei neonati ma ambiziosi Stati Uniti e vengono gettate le fondamenta del loro imperio sulle Americhe.
La dottrina Monroe, pilastro incrollabile e portante della politica estera a stelle e strisce, è la ragione dell’egemonia globale degli Stati Uniti. Controllando un intero emisfero, isolato dalla turbolenta Eurafrasia da due spesse cinte murarie, Washington ha potuto laddove nessun’altra grande potenza era mai riuscita nel corso della storia: costruire una talassocrazia dalle ramificazioni planetarie.
La satellizzazione dell’Europa ha tradizionalmente servito l’obiettivo, di provenienza britannica, del contenimento duale di Germania e Russia. L’edificazione della catena di isole vuole proteggere il Pacifico, la cinta muraria occidentale delle Americhe, dalle spinte centrifughe provenienti dalla Cina continentale. Ma la dottrina Monroe ha tutt’altro ruolo: è l’osso sacro del sistema imperiale statunitense.
Se le Americhe Latine diventassero un cortile caotico ed ingestibile, un’anarchica scacchiera di eurasiatica memoria, costringerebbero gli Stati Uniti a ridurre la portata dei loro obiettivi globali e a dedicarsi alla risoluzione dei loro problemi interni. Dalla permanenza delle Americhe Latine nella sfera di influenza di Washington, in estrema sintesi, dipende la posizione di quest’ultima nel mappamondo: se centrale, se periferica.
La consapevolezza dell’importanza della dottrina Monroe per gli Stati Uniti ha portato gli aspiranti all’egemonia globale di ogni epoca, a partire dalla Francia di Napoleone III, a lanciare il guanto della sfida nell’Emisfero occidentale. Perciò è stata battaglia nell’Atlantico durante l’età guglielmina, dalla corsa agli armamenti di fine Ottocento alla Prima guerra mondiale. Perciò è stata battaglia nell’Atlantico durante l’era nazista, dagli assalti al Latinoamerica degli anni Trenta alla Seconda guerra mondiale. E perciò è battaglia nell’Atlantico oggi.
Stati Uniti, anno domini 1972. La disillusione è tanta tra Casa Bianca, Pentagono e Langley: Cuba è un avamposto sovietico nei Caraibi, dal Guatemala a Panama infuria la “guerra civile mesoamericana”, l’Alleanza per il progresso è morta insieme a Jfk, la Chiesa cattolica latinoamericana è ritenuta un rivale latente a causa della “teologia della liberazione” e nel cono sud avanzano le forze politiche di sinistra ed estrema sinistra. Il lungimirante Henry Kissinger, lo stratega di Richard Nixon, è pessimista: se Salvador Allende (di)mostrasse la praticabilità delle “vie democratiche al socialismo”, un effetto domino nel resto del monroano cortile di casa sarebbe inevitabile.
Allende deve cadere affinché gli Stati Uniti restino in piedi. E così sarà. Ma nel dopo-Allende, alla luce dell’aumento dei paesi latinoamericani controllati da regimi militari filoamericani, il dilemma dell’effetto domino viene sostituito da quello del controllo multiplo. Guerre civili, movimenti armati di estrema sinistra e società livorose potrebbero causare il rovesciamento dal basso delle dittature eteroguidate da Washington. Alla Casa Bianca si fa strada l’idea che occorrano una cabina di regia per dirigere la satellizzazione degli ultimi sfuggenti del cono sud – Perù e Argentina – e un grande cervello in grado di supervisionare l’intera rete. L’insieme avrebbe preso il nome di operazione Condor.
Washington era la capitale del sistema Condor, Santiago e Brasilia i capoluoghi principali. Elevando la frequenza e migliorando la natura quanti-qualitativa degli interscambi di expertise, intelligence e know-how in materia di antiterrorismo, guerre sporche e sorveglianza di massa, sullo sfondo dell’erogazione – da parte statunitense – di armamenti, addestratori e soldati privati ai richiedenti, l’operazione Condor avrebbe possibilitato prima il golpe del generale Francisco Morales Bermúdez in Perù nel 1975 e poi l’instaurazione di una giunta militare in Argentina nel 1976.
Nel nome dell’impermeabilizzazione del cono sud, afflitto da semi-guerre civili, dalle scorribande di gruppi armati extraparlamentari di estrema sinistra e dalle interferenze nei suddetti di Unione Sovietica e alleati, i membri dell’operazione Condor avrebbero dato vita e forma ad una “collaborazione inclusiva di attività di intelligence segrete e transnazionali, sequestri, torture, sparizioni e omicidi”. La trasformazione del cono sud in un laboratorio a cielo aperto, costellato di prigioni segrete e permeato da un orwelliano clima di controllo sociale, era un male necessario – agli occhi del Condor – nel contesto della guerra al comunismo. Contro il quale, in quanto ritenuto male assoluto, tutto era lecito.
Il coordinamento e l’interscambio di intelligence tra le principali agenzie di sicurezza dei membri di Condor, in particolare tra la Cia degli Stati Uniti e la Dina del Cile – caso manuale di allievo che supera il maestro –, avrebbero giocato un ruolo fondamentale nel prolungamento della durata di vita dei regimi militari coinvolti nell’operazione, nell’assassinio di vittime eccellenti e nella conduzione delle cosiddette “guerre sporche” (guerras sucias). Esito: la sopravvivenza della dottrina Monroe alla prova del capitolo latinoamericano della Guerra fredda.
L’operazione Condor ebbe una durata variabile, ovvero non finì nello stesso momento per tutti i paesi coinvolti. Finì con il loro ritorno alla forma democratica: in Argentina, ad esempio, l’operazione Condor terminò nel 1983, mentre in Cile nel 1990.
L’ampiezza dei crimini e dei misfatti dell’operazione Condor sarebbe divenuta di pubblico dominio soltanto nel 1992, a Guerra fredda alle spalle, con il ritrovamento – casuale o voluto? – dei cosiddetti Archivi del terrore nelle stanze del commissariato di Lambaré (Paraguay). Sessantamila faldoni, per un totale di 593mila pagine e pesanti quattro tonnellate, scoperti dal giornalista Martín Almada e dal giudice José Agustín Fernández, comprovanti le violenze – tutte o alcune? – compiute dai membri di Condor nei due decenni precedenti.
Stando agli Archivi del terrore, ai quali si sarebbero aggiunte in seguito le indagini di altri giornalisti e delle magistrature, l’operazione Condor sarebbe risultata nell’imprigionamento illegale di 400-500mila persone, nell’assassinio di 50mila e nella scomparsa di 30mila. Stime al ribasso, si è scoperto più in là, dato che la sola Argentina avrebbe accumulato 30mila desaparecidos.
Condor rappresenta e rappresenterà nei decenni a venire la stella polare delle guerre sporche. Oggi relegato al dimenticatoio, nonostante molto di esso sia ancora da scoprire – come dimostrato dal fatto che, dieci anni dopo il rinvenimento degli Archivi del terrore, è emersa una French connection –, il piano Condor è stato il più efficace, efficiente e duraturo meccanismo di controllo ibrido da remoto di un estero vicino che sia mai stato architettato da una grande potenza.
Se gli Stati Uniti non avessero vertebrato e ottimizzato per mezzo di un’intelligenza centrale la satellizzazione del cono sud iniziata con Paraguay ’54 e terminata con Argentina ’76, è plausibile sostenere che l’Unione Sovietica sarebbe riuscita a concretare, anche solo in parte, la strategia della “cubanizzazione” dell’estremità meridionale dell’America Latina.
Il piano Condor, applicazione su larga scala del metodo Jakarta, testato con successo in Indonesia nel 1965, è una pagina di storia semisconosciuta che ha cambiato il corso della storia del Novecento e che ha dato un contributo fondamentale all’arte nera delle guerre sporche. È una pagina di storia che non può essere né ignorata né dimenticata, perché la fine della Guerra fredda ha comportato semplicemente un cambiamento nei mezzi impiegati nelle guerre coperte e sporche, anche alla luce del sorgere di forme di controllo più pervasive e meno visibili – come le operazioni cognitive –, ma non un abbandono di politiche di potenza, tornei di ombre e formae mentis imperiali e imperialistiche. Le Condor di oggi e domani non uccideranno i corpi, ma le menti. Condor sarà per sempre.