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Propaganda, proteste e società spaccate: le vere radici della crisi in Iran

La protesta in Iran iniziata nel settembre 2022 è stata spesso descritta come una rivolta delle donne. È partita in effetti dopo la morte di Mahsa Amiri, ragazza di origine curda deceduta dopo essere stata arrestata a Teheran per non aver indossato correttamente l’hijab. Ma l’episodio in questione ha in realtà fatto detonare una situazione già molto grave.

La notizia della morte della giovane ha come scoperchiato un vaso di Pandora tenuto faticosamente coperto dalle autorità della Repubblica Islamica: le stesse che vegliano sulla rivoluzione del 1979. Nel giro di poche settimane, sono uscite fuori le istanze della popolazione più povera, delle minoranze etniche e di giovani generazioni lontane, anagraficamente e non solo, dalla rivoluzione di 44 anni fa.

La crisi economica che attanaglia il Paese

Quella partita a settembre non è certo la prima rivolta che ha sconvolto l’Iran dall’inizio dell’era degli ayatollah. Alla fine del 2019, importanti proteste sono esplose in diverse città. Non solo nella capitale, ma anche nelle aree più remote. In quel caso si trattava di manifestazioni successive all’annuncio del raddoppio del prezzo della benzina e del razionamento nella distribuzione dei carburanti.

Circostanza che ha scatenato un’ondata di collera sociale. In diverse parti dell’Iran sono stati assaltati anche i distributori, con scene da vera e propria rivolta popolare. La situazione è rientrata dopo alcune settimane. E questo sia per via della riposta della polizia, ma anche perché con l’aumento delle tasse sulla benzina il governo ha potuto dedicare risorse alle classi meno abbienti. Con le primavere arabe nate sull’onda del malcontento dei ceti più poveri, la tassazione della benzina è servita per redistribuire reddito ai cittadini meno agiati. La rivolta è stata così gradualmente silenziata.

Ma il malcontento non è stato estirpato, soltanto mantenuto più in profondità. I leader della repubblica islamica hanno sperato poi nell’evoluzione del contesto internazionale e, in particolare, nella fine delle sanzioni a carico dell’Iran. Il coronavirus prima e i mancati accordi sul nucleare dopo, non hanno scalfito la situazione. Per questo il Paese è rimasto stretto nella morsa di una crisi sempre meno gestibile. Sono poche le entrate e il petrolio e le altre risorse di cui è ricco il territorio iraniano non possono essere vendute all’estero: la cinghia del bilancio si è così fatta sempre più stretta.

Se le sovvenzioni al momento riescono a tenere ferme le masse meno abbienti, la classe media invece sta patendo una situazione sempre più grave. Ed è l’agitazione di questa classe al momento a spaventare maggiormente i vertici del potere iraniano.

Proteste per il caro caburanti nel novembre del 2019. (Foto: EPA/STR)

Giovani generazioni lontane dalla rivoluzione islamica

Alla classe media appartengono molti degli studenti scesi in piazza in questi ultimi mesi. Da parte loro è emerso un nervosismo legato al proprio futuro e alla fatica di trovare lavoro. Preoccupazioni in grado di aprire la strada a un altro genere di rivendicazioni. Quelle di natura sociale. E qui a fungere da detonatore è stata la questione anagrafica. L’età media della popolazione iraniana è molto più bassa di quella europea e occidentale. Anche se nell’ultimo decennio la crescita demografica ha subito un vistoso rallentamento, l’età media dell’intera popolazione è di 31 anni. In Italia, per avere un’idea, è di 46.

Vuol dire quindi che c’è un’ampia fetta di cittadini non ha mai toccato con mano la rivoluzione islamica del ’79. Le condizioni disagiate a livello economico e i contatti con l’estero anche tramite i social (nonostante i frequenti blocchi), stanno aumentando tra i giovani, studenti e non, la percezione di essere ingabbiati in un sistema da loro non voluto e da loro non compreso.

Le ragazze che in piazza hanno tolto il velo come gesto di provocazione, hanno voluto esprimere la sensazione di ritrovarsi all’interno di un contesto anacronistico. Ed è la trasposizione in piazza di quanto già da tempo avveniva all’interno delle case. Negli anni molti giovani sono stati sorpresi a organizzare feste private, con alcool e comportamenti ritenuti immorali. Una vita, quella del giovane medio iraniano, molto diversa da quella concepita da chi ha fatto la rivoluzione del 1979.

E questo non solo per via dell’inevitabile cambiamento dei tempi. Anche negli anni ’80, al fianco di giovani che hanno partecipato alla nascita della Repubblica Islamica, c’erano giovani che hanno vissuto in modo distaccato gli eventi. La rivoluzione è stata accettata da tutti in nome del superamento del regime dello Scià Rheza Palevi e per via dell’attacco iracheno nella guerra sviluppatasi tra il 1980 e il 1988. Oggi, con una certa lontananza dai dettami del 1979 e con condizioni economiche sempre meno promettenti, al distacco si è aggiunta l’insofferenza.

Minoranze discriminate

La morte di Mahsa Amiri ha catalizzato l’attenzione anche delle minoranze. È un’altra questione mai del tutto chiusa dai vertici della Repubblica Islamica. La ragazza deceduta a Teheran era di origine curda. Questo ha creato le basi per importanti manifestazioni tenute nella provincia del Kurdistan iraniano. In scia, le altre minoranze hanno iniziato a portare in piazza il proprio malcontento. A partire dagli azeri, minoranza turcofona che vive nel nord del Paese in regioni importanti come quelle di Tabriz.

La questione azera è sempre stata molto delicata. Lo dimostra il fatto che nel novembre 2015 importanti manifestazioni sono esplose nelle regioni a maggioranza azera dopo uno sceneggiato televisivo. Si trattava di un programma dedicato ai bambini dove una famiglia azera veniva descritta con stereotipi negativi, seppur in chiave comica. Dopo la puntata, in migliaia hanno protestato per le strade. Segno di un’insofferenza latente e mai sopita.

Più a sud a partecipare alle manifestazioni degli ultimi mesi sono stati anche i baluci. Membri cioè di una minoranza di religione sunnita, la quale ha sempre percepito la teocrazia sciita come lontana e discriminatoria. A fine settembre a Zahedan, capoluogo della provincia del Balucistan, si sarebbe consumata una delle peggiori stragi dall’inizio delle manifestazioni di settembre: durante gli scontri tra gruppi locali e poliziotti, sarebbero morte almeno 80 persone.

Distribuzione del popolo curdo (Alberto Bellotto)

Una retorica che non fa più presa

Giovani lontani dalla rivoluzione del 1979, economia sempre meno solida e minoranze etniche e religiose mai pienamente integrate nel contesto sociale e politico del Paese. La fragilità interna dell’Iran è emersa con forza subito dopo lo scoppio delle proteste di settembre. Una fragilità figlia delle tante contraddizioni del Paese, tenute faticosamente unite e nascoste dallo spettro, perennemente e sapientemente alimentato dalle autorità, dell’esistenza di nemici esterni. Nel primo decennio di vita della Repubblica Islamica, è stata la guerra contro l’Iraq a rinsaldare la società. In seguito, sono state le sanzioni a far percepire all’opinione pubblica di essere sotto attacco esterno.

La retorica però adesso non fa più presa. Il collante che ha tenuto unito l’Iran non riesce più a far incastrare il variegato mosaico sociale. Nemmeno la recente scomparsa dal generale Soleimani, ucciso da un raid Usa nel gennaio 2020, è riuscita a riunificare il Paese. Dopo i primi giorni di lutto nazionale molto partecipato, la crisi generata dal coronavirus e le tensioni nate negli ultimi mesi hanno fatto dimenticare l’esistenza di martiri e di attacchi esterni. Fino alla detonazione di tutte le varie tensioni faticosamente tenute nascoste dai massimi dirigenti della Repubblica Islamica.

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