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La sinistra si aggrappa a Sanremo, il nuovo cineforum per rieducare gli italiani – Gianluca Spera

Banalmente, si dice che Sanremo sia lo specchio del Paese. Per come stanno andando le cose quest’anno, sembra che sia il Paese a essere lo specchio di Sanremo, diventato l’epicentro politico e culturale di quest’Italia confusa ma neppure tanto felice.

Nel Festival in cui si è imposto il pensiero più liquido che fluido, e le finte trasgressioni, se ne sono viste di tutti i colori. La cosa più incredibile è aver dato una connotazione politica a quella che dovrebbe rappresentare una innocua manifestazione canora.

L’inno alla libertà

Infatti, dopo la performance di Benigni nella serata d’apertura (di cui ha già scritto in maniera più che esaustiva Federico Punzi su Atlantico Quotidiano), i toni della stampa sono diventati aulici e trionfanti.

La Stampa in prima pagina ha parlato di “Inno alla libertà” a proposito della Costituzione celebrata dal comico toscano al cospetto del presidente della Repubblica. Leggermente diversa, ma ugualmente solenne, l’espressione usata dal Corriere della Sera nelle pagine interne per magnificare lo show benignano: “Elogio della Libertà”.

Messa così, la vicenda risulta piuttosto bizzarra e anche fuorviante. Ricordarsi della libertà, per lo più declinata nell’ambito di un programma di intrattenimento nazional-popolare, dopo quasi un triennio di dispotismo sanitario in cui i diritti individuali sono stati sospesi e sacrificati, suona assai beffardo.

Pedagogia da influencer

Anche perché la kermesse sanremese, sotto la guida del cerimoniere Amadeus, ha inteso dare una precisa impronta pedagogica alle cinque lunghe ed estenuanti serate.

Eppure l’operazione non sembra destinata a produrre grandi risultati se, per recuperare i consensi perduti, l’universo radical-chic si affida ai banali monologhi degli influencer travestiti da maître à penser, alle lezioncine dei comici crepuscolari nel ruolo di costituzionalisti, ai sermoni dei rapper con toni da fustigatori.

Il Festival della canzone ha ormai sostituito i vecchi cineforum di quartiere che erano più elitari e meno sovraesposti. Perciò, il dibattito che si esauriva dopo una mezz’oretta dalla fine della proiezione, adesso si alimenta a getto continuo.

Per cui, Sanremo val bene una piroetta. Ciò che un tempo era guardato con sospetto perché lontano da forme di divulgazione più raffinate e impegnate, adesso è utile alla causa. Ora che i tempi sono cambiati, la canzone d’autore è tramontata, il cinema d’essai è stato soppiantato da Netflix, risulta più semplice salire sul carro allegorico sanremese.

E se i Toto Cotugno e i Mino Reitano non scaldarono i cuori dell’intellighenzia di allora, in questi strani tempi ci pensano i Maneskin o Elodie a ringalluzzirli. Così, si crea il meccanismo che alimenta l’audience e fa salire lo share. Bene o male, purché se ne parli. O, per dirla in latino, divide et impera.

La “nuova resistenza”

Il popolo discute, si accapiglia, si incazza pure e l’avanspettacolo prosegue non risparmiando neppure chi vorrebbe sfuggire alla sua morsa. È un po’ come l’Hotel California degli Eagles. L’orgia di notizie ti insegue, ti bracca, ti raggiunge dappertutto.

Viene quasi da pensare che, parafrasando Gobetti, Sanremo sia l’autobiografia del Paese. Invece, appare come l’antropologia del Paese. Come un metodo di indagine sulla coscienza o, forse, sull’incoscienza della popolazione che partecipa in massa al rito pagano.

Questo provoca entusiasmi ingiustificati. Tipo quello di Francesco Merlo che, su Repubblica, ha scritto che sul palco ligure sta andando in scena “la nuova resistenza”, affidando ad Amadeus i panni del novello partigiano. 

Secondo Ugo Magri, editorialista de La Stampa, questo Festival è destinato a passare addirittura alla storia per essersi posto a difesa dei valori repubblicani. Gli stessi valori che, però, erano passati un po’ di moda nell’era pandemica. Ma tant’è, il nostro è un Paese che soffre di amnesie e dimentica velocemente il passato, anche quello recente.

Educare le masse

Più che altro, sfugge la ragione per cui una manifestazione politicamente orientata e culturalmente debole debba essere finanziata dai contribuenti, anche da quelli che non l’apprezzano e non si lasciano impressionare dalle mode temerarie, per non dire naïf. A maggior ragione se si considera che il ritratto che viene fuori del Paese non è né rassicurante né gratificante.

Il racconto appare didascalico, i discorsi banali, l’eloquio non particolarmente ricercato, la forma non propriamente elegante, la mentalità piuttosto provinciale. Il tutto naturalmente nell’intento di educare le masse al nuovo pensiero unico, di elargire panem et circenses, di formare una nuova classe di cittadini allineati e obbedienti.

Li convinceremo che saranno liberi soltanto quando rinunceranno alla loro libertà in nostro favore e si sottometteranno a noi”, scriveva Dostoevskij nel suo romanzo capolavoro, “I fratelli Karamazov”. Allora, ecco che la pedagogia sanremese diventa una sorta di sovrastruttura di un disegno più ampio, destinato però a fallire come ha scritto magistralmente Stefano Folli su Repubblica.

La sinistra intellettuale una volta si riconosceva nei giudizi taglienti di Pierpaolo Pasolini su Sanremo (“povera idiozia”); oggi si aggrappa al Festival come a una zattera in cerca di un ricostituente ideale, ma se possibile anche elettorale, che difficilmente potrà venire dallo spettacolo allestito da Amadeus.

Insomma, da Pasolini a Chiara Ferragni, il passo verso il viale del tramonto politico e ideologico è davvero breve. Anzi, visti gli ultimi esiti elettorali, siamo più vicini al tracollo che al tramonto.

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