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La Cisgiordania al centro delle violenze: cosa sta succedendo

Non si placano le violenze in Palestina. Solo la settimana scorsa un raid israeliano nella città di Nablus ha provocato una decina di morti e centinaia di feriti. La risposta palestinese è arrivata domenica 26 febbraio dopo che un uomo palestinese ha aperto il fuoco contro due coloni ebrei uccidendoli. L’attacco ha provocato la rappresaglia da parte dei coloni causando la morte di un 37enne palestinese. Il 27, invece, un israeliano colpito da arma da fuoco e rimasto ferito vicino la città di Gerico. Da accertare ancora la natura dell’attacco.

Da inizio anno sono stati tre i raid dell’esercito israeliano avvenuti nella Cisgiordania occupata e, con quest’ultimo, cinque gli attentati terroristici palestinesi, segnando così un record mai registrato prima.

Alla luce di questi sanguinosi eventi ha avuto luogo, sempre il 26 febbraio, ad Aqaba in Giordania, un incontro tra alti funzionari israeliani e palestinesi che si sono detti pronti a lavorare congiuntamente per preventivare le violenze. Malgrado l’incontro non sia stato gradito da una parte del governo israeliano, l’impegno mostrato ad Aqaba rimane l’unico spiraglio per una reale de-scalation.

Il raid a Nablus

Il nuovo governo di estrema destra si sta rivelando più duro nei confronti dei palestinesi e dei suoi gruppi armati, portando avanti una linea intransigente e militare con tre raid da inizio anno. Il primo nel campo profughi di Jenin, che ha visto 10 morti, il secondo nella periferia della città palestinese di Gerico, provocandone 7 e il terzo mercoledì scorso a Nablus. È proprio quest’ultimo raid ad aver provocato il maggior numero di morti e feriti.

Verso le 10 di mattina del 22 febbraio, veicoli militari israeliani hanno fatto irruzione nel centro palestinese di Nablus. Il raid è durato quattro ore e si è concentrato su un edificio della città che secondo l’esercito israeliano ospitava dei combattenti della resistenza palestinese. L’obiettivo iniziale era quello di arrestare i responsabili dell’uccisione del soldato Ido Baruch avvenuta il 13 febbraio. Una volta circondato l’edificio le forze israeliane hanno intimato la resa. Dall’interno e anche attraverso una presunta registrazione condivisa sui social, uno dei combattenti avrebbe detto che non si sarebbe mai consegnato alle forze di occupazione. A quel punto le forze israeliane hanno lanciato un missile anticarro contro l’edificio.

All’interno della casa erano presenti 11 combattetti palestinesi appartenenti al gruppo armato Areen al-Aswad (Fossa dei Leoni), due dei quali gli obiettivi principali del raid: Hussam Bassam Aslim, 24 anni e Mohamed Omar Abu Bakr, 23 anni. Nello stesso momento gli abitanti della città e membri della Brigata Balata e Brigata Nablus, hanno scatenato un’offensiva contro i militari israeliani che nel frattempo, guidati da droni ed elicotteri, hanno ucciso altre sette persone. Secondo il ministero della salute palestinese sono rimasti uccisi 10 palestinesi e sarebbero 95 le persone rimaste ferite in tutta la città.

Abu Obaida, portavoce del braccio armato di Hamas, le Brigate Ezzedin al Qassam, ha dichiarato che i ripetuti raid, nonché i crimini compiuti dai coloni israeliani nei territori occupati, sono sotto la lente d’ingrandimento dell’organizzazione che sta “esaurendo la sua pazienza“, lasciando intendere che un intensificarsi di lanci di razzi al confine di Gaza non è da sottovalutare. Ma anche il movimento Fatah del Presidente Abu Mazen, non incline a rilasciare dichiarazioni di guerra come i gruppi armati, ha lanciato appelli a “resistere all’occupazione”.

L’attentato e le rappresaglie dei coloni

Come da copione, ad ogni raid corrisponde un attentato palestinese. E così il 27 febbraio, mentre le delegazioni palestinesi e israeliane si trovavano in Giordania per placare le tensioni, un uomo armato ha ucciso due coloni israeliani che viaggiavano nella loro auto a sud di Nablus. A morire sono stati due fratelli, Hillel e Yagal Yaniv, rispettivamente 21 e 22 anni residenti nell’insediamento di Har Brachà. L’attentatore non è ancora stato identificato ma si pensa che sia un “lupo solitario” e che abbia agito per “vendicare” i morti del raid di Nablus.

In risposta, gruppi di coloni hanno attaccato civili palestinesi nelle cittadine di Hawara, Burin e Qaryut, provocando la morte di un palestinese di 37 anni e 98 feriti. I coloni avrebbero anche dato fuoco a numerose case tanto da far intervenire l’esercito israeliano per evacuare alcune famiglie dalle abitazioni date alle fiamme. Almeno 15 case sono state bruciate insieme a 20 automobili.

Le reazioni israeliane e statunitensi all’ombra dell’incontro di Aqaba

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dopo la sparatoria, ha ha rilasciato una dichiarazione annunciando che la Knesset ha approvato una legge che prevede la pena di morte per i palestinesi condannati per terrorismo. Nella dichiarazione si legge: “In questo difficile giorno in cui due cittadini israeliani sono stati uccisi in un attacco terroristico palestinese, non c’è niente di più simbolico che approvare una legge sulla pena di morte per i terroristi”. Successivamente in seguito agli attacchi nei confronti dei palestinesi ha invitato i coloni a “non prendere la legge nelle vostre mani”. Anche il ministro della difesa Yoav Gallant ha condiviso l’appello di Netanyahu. Diversa la reazione del ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir che non facendo del tutto riferimento agli attacchi dei coloni ha chiesto una “vera guerra al terrorismo” soffiando così sul fuoco.

Ned Price, portavoce del dipartimento di Stato Usa, ha dichiarato che gli Stati Uniti condannano sia la violenza in Cisgiordania sia l’attacco terroristico palestinese. “Questi sviluppi sottolineano l’imperativo di ridurre immediatamente le tensioni con parole e fatti”, ha scritto su Twitter. “Gli Stati Uniti continueranno a lavorare con israeliani e palestinesi e con i nostri partner regionali per ripristinare la calma”.

Risale a un mese fa la dichiarazione del direttore della Cia, William Burns, in cui avvertiva di una nuova possibile Intifada se Israele e Palestina non si fossero impegnate congiuntamente nell’allentare le tensioni. “Gli sforzi per prevenire esplosioni di violenza sono una sfida”, ha dichiarato. Così domenica 26 febbraio ad Aqaba in Giordania, Israele e Palestina si sono prese l’impegno di ripristinare la calma ed evitare nuovi scontri. Amman ha infatti ospitato un incontro tra le due parti nel tentativo di fermare l’ondata di violenza che ha caratterizzato gli ultimi mesi.

L’incontro ha visto la partecipazione anche di rappresentati degli Usa e dell’Egitto. In una dichiarazione congiunta si legge che Israele si impegna a smettere di discutere la creazione di nuove unità di insediamento per quattro mesi e a smettere di approvare nuovi insediamenti per sei mesi. Dopo “discussioni approfondite e franche”, continua la dichiarazione, “le parti palestinese e israeliana hanno riaffermato la necessità di impegnarsi per una de-escalation sul terreno e per prevenire ulteriori violenze”. Il consigliere della sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha dichiarato che gli Usa vedono l’incontro come un punto di partenza e che nei prossimi mesi ci sarà molto lavoro da fare per “costruire un futuro stabile e prospero sia per gli israeliani che per i palestinesi”.

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